I LUOGHI LONTANI DI CARLO CUPPINI.
Che si sia trattato di un esperimento (non comunque inedito) o di una semplice esperienza, quello di Giovanni Agnolini, Carlo Cuppini e Sandra Salvato, mi sembra un progetto tutto sommato ben realizzato. Da luoghi lontani, il loro ultimo libro, è una raccolta di nove racconti, tre per autore, che si alternano in tre sezioni, Memoria, Sogno, Spazi cosmici, nel tentativo di farne, se non una specie di “romanzo”, un che di unitario dove il filo logico e narrativo giochi comunque un ruolo essenziale. Bene hanno fatto gli autori, visti i risultati, e bene ha visto la casa editrice Arkadia a credere nel loro progetto, anche se forse non si capisce bene la rinuncia a pubblicare anche una versione e.book, a quel che mi risulta, ma ognuno ha la propria strategia editoriale. In effetti, come preannunciato nella bandella del libro, il collagene che salda i nove racconti c’è: quello della “dimensione” della memoria, del sogno e della profondità cosmica, lette in modo particolare e soggettivo dai tre autori in un articolarsi di luoghi, tempi e situazioni che vagano per trovare un punto d’incontro nella “metafora dell’ignoto e dell’oltre”, inteso come “altrove”, anche se questo termine andrebbe mediato in maniera più puntuale, vista l’importanza che ha assunto nella cultura contemporanea. Sarebbe giusto trattare autore per autore e poi l’opera come corpo unico, ma l’impresa richiederebbe tempo, spazio e metodo che qui mancano, per cui mi sembra opportuno concentrare l’attenzione su uno di loro, non tanto come campione, e neppure come summa della letteratura degli altri due, ma come una facilitazione alla mia visione e alla lettura di chi vorrà. La scelta è caduta su Carlo Cuppini, e non per motivi, diciamo, campanilistici, quanto perché ho avuto la fortuna di potere seguire il suo lavoro di scrittore fin dagli esordi, da quel racconto, Il mago, che gli valse la finale del “Campiello giovani” già nel 1998. Il palazzo rinascimentale, Il carico e La porta del cielo, i titoli dei tre racconti di Carlo che compaiono nel volume, racconti l’uno indipendente dall’altro e al tempo stesso interconnessi. Intanto va notata una cosa di non secondaria importanza: la struttura e lo stile dei tre pezzi si discosta da quello che si potrebbe definire lo stereotipo novecentesco, avviandosi, senza cadere in uno sperimentalismo fine a se stesso, verso un’apertura a nuovi terreni da esplorare, vuoi nella frammentazione del linguaggio, o nel cambio dei tempi verbali, fino ai balzi di senso che obbligano il lettore a una più attenta concentrazione e a una riflessione che può condurre su strade almeno in parte inesplorate. Anche i tre lavori di Cuppini si sviluppano seguendo il filo della memoria. La memoria o qualcosa che le si avvicina molto. “Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto”, scriveva Agostino (Confessioni, 8.12) , legando la memoria alla conoscenza, ma pure come il riaffiorare di ciò che già si sapeva, in quanto l’uomo è già in possesso degli strumenti adatti al riconoscere, strumenti che si attivano quando la volontà lo richiede, lo ritiene necessario. Insomma l’uomo sarebbe il prodotto del proprio passato e della propria memoria. E ciò varrebbe anche per il futuro, per potere guardare in avanti bisogna prima rivolgersi in dietro, capire se stessi. In Cuppini però il discorso sembra un poco differente. I racconti, soprattutto il primo, danno l’impressione di dipanarsi più sotto il segno del ricordo piuttosto di quello della memoria. La memoria la si può considerare di natura ricostruttiva, è in grado di recuperare i dati dal passato, mentre il ricordo “implica cucire assieme piccoli frammenti di informazione, in una narrazione che abbia senso” (Costandi 2014), e anche per Wittgenstein nelle Osservazioni filosofiche, il ricordo è un modo di vedere nel passato. Mi sembra sia quanto accada ne Il palazzo rinascimentale, dove il susseguirsi dei ricordi infantili legati a un luogo mitico, più la città che il Palazzo in sé, e a alcuni personaggi che sono de-personalizzati (la madre e non mia madre, il padre e non mio padre, la sorella e non mia sorella) creano una specie di film, fotogrammi, frammenti, che compongono un momento interiore del personaggio e dell’autore (il racconto è chiaramente autobiografico), che partendo da un evento o da una serie di eventi di fatto creano un testo che non ha una vera e propria fine. Ogni ricordo del racconto è legato, anche se può non apparire immediatamente, per una specie di continuità a tutto ciò che avviene, che lo precede o lo segue, insomma, a ricostruire la vita stessa del personaggio. In definitiva in questo racconto più che memoria, come dato immediato, sembra dominare il ricordo come un procedimento mediato dalla riflessione, nel senso in cui intendeva il concetto il Kierkegaard di In vino veritas. Infatti, la memoria è un dato immediato, mentre il ricordo è un’operazione mediata dalla riflessione, cioè un atto di coscienza attraverso il quale si ricostruisce una parte determinata del passato. Un passato che si presentifica e si costituisce come atto individuale (caratteri individuabili anche ne Niente da dichiarare della Salvato e in Alleghe di Agnoloni, seppur in maniera piuttosto differente). Ancora un aspetto, tra i tanti che emergono da questi tre racconti di Cuppini, che mi ha colpito, è quello dell’identità. Qui si torna, in qualche modo, alla memoria, poiché questa garantendo la continuità, si lega all’identità (Assmann, 1997); non sarebbe possibile infatti conoscere ciò che si è e verso cosa si sta andando se la propria provenienza è sconosciuta. L’identità nel nostro mondo costituisce un vero e proprio problema, iniziato dal ‘900 come crisi e fondamento di tutto un discorso, ormai quasi completamente superato, che ha costituito una delle basi del postmoderno. Si può parlare di alterazione antropologica alla luce di tutti i cambiamenti, per altro piuttosto rapidi, che hanno coinvolto la società contemporanea con una inevitabile ricaduta sull’identità collettiva e, soprattutto per quel che qui interessa, personale. Ci si trova di fronte a delle “identità modulari”, cioè che sono soggette a mutamenti continui e, almeno apparentemente, senza limitazione. L’identità si è trasformata cioè in una “rappresentazione teatrale del sé” (Kellner 1992). È come se il passato, anche personale, fosse scacciato via a favore del presente, del qui ora, là dove prima era proprio il passato la struttura portante dell’identità e ne viene che, senza il passato, non si ha più un’identità stabile. L’identità vede nella memoria sia la propria origine che la propria espressione, essa permette di riconoscere l’uguale che si sviluppa nel tempo selezionando determinati ricordi piuttosto che altri. È il flusso dei ricordi che sta alla base dell’identità, la quale si posa sull’esperienza vissuta e poi ricordata. Si rende così necessario un dialogo con la memoria, un dialogo interiore che, però, nel nostro mondo sollecitato da mille differenti fonti e da una frenesia del presente, non si attua come cosa facile, e spesso necessita di un medium che, più o meno inconsciamente, veicola l’individuo verso il recupero della memoria e dell’identità. Nasce un’idea di relazione che permette di considerare l’identità come unità decentrata in cui la memoria gioca il ruolo da protagonista. Ne Il carico tutto sembra girare attorno al “sacco”, l’oggetto dal contenuto misterioso e che tale rimane e alla eventuale illegalità della sua commissione e destinazione, mai dimostrate. Ma ciò che emerge è che il protagonista, gravato dal peso del pacco e vagante per una Venezia nella quale sono assenti i registri soliti di romanticismo o decadenza e, tanto meno, turistici, sembra un uomo alla ricerca di una propria identità, forse perduta a causa degli avvenimenti personali, soprattutto famigliari che lo hanno segnato, ma che non riescono a emergere dalla sabbia della mente come ricordi e tanto meno come memoria. Ciò è reso possibile dall’incontro con l’acrobata funambola, la ragazza che cammina sul filo con la faccia bianca e l’ombrellino che le fa da contrappeso, cioè dalla presenza dell’altro e dalla relazione che si instaura, inizialmente con una certa fatica e diffidenza, tra i due. Solo allora i ricordi, le telefonate, la moglie, i figli, sembrano riemergere con un significato che costruisce un passato e che restituisce un’identità al protagonista. La memoria prende i sopravvento anche se rimane sospesa, ma girando la pagina di quel libro da scrivere e già scritto che è la vita e il futuro imprevedibile della vita, non si troverà la parola “sacco”, l’indefinito, ma qualcosa in qualche modo certo, anche se mutabile, perché “ci sarà scritto”, già scritto dalla memoria potremmo aggiungere, e questo, pur tra le lacrime, questa ritrovata identità, permette agli occhi di guardare lontano. Così anche il futuro, il futuro più o meno fantascientifico, appare come un’ipotesi. La memoria non è un qualcosa di passivo, costruisce o, meglio, ri-costruisce operando una selezione e trasformando e aprendo in questo modo ipotesi per il futuro. Anche in La porta del cielo, terzo racconto di Cuppini, il futuro viene costruito sulla memoria, sul passato, alla ricerca di una identità che appare solamente già prefigurata. Non è tanto importante, mi sembra, il fatto che il narrato si svolga, sia ambientato, nel futuro, poiché nello svolgimento della diegesi si mostra come presente, come agente nel presente del personaggio, e, tra l’altro, è un futuro che ha poco di fantascientifico, poiché potrebbe benissimo essere qualcosa che accadrà domani o tra un mese. Tuttavia anche qui il protagonista si appella all’immagine e al ricordo della donna che ha amato da ragazzo, donna morta, e la cosa non sarebbe di poca importanza, ma aprirebbe un ulteriore capitolo, e della quale ricorda i momenti salienti della loro coesistenza, la spensieratezza, le speranze giovanili. Ma ciò che fa scattare nel protagonista tutto il meccanismo che lo conduce verso un recupero dell’identità è provocato dalla tensione verso uno scopo, forse “toccare i segreti del cosmo, a raccogliere dati cruciali per il futuro della scienza e dell’umanità”, che mette in moto e viene messo in moto dalla memoria, nel senso che è la tensione verso il futuro che accelera il motore della catena dei ricordi che non sarebbe possibile senza l’intervento di colui che ricorda. Un po’ come accade a Crizia nel celebre dialogo di Platone. Sarà il rientro nell’atmosfera terrestre e il prossimo ammaraggio o atterraggio, che riporterà definitivamente il protagonista a contatto con la propria identità e ciò gli è permesso proprio smettendo di pensare all’amica scomparsa, poiché se la memoria ha permesso la costruzione e il mantenimento dell’identità nel tempo nonostante i continui cambiamenti che intervengono sul soggetto modificandolo, l’identità interviene svelando all’individuo che egli rimane pur sempre uguale se stesso, cioè che colui che agisce sarà sempre lo stesso individuo. La realtà, il contingente, il “Sto per atterrare”, cioè rientrare nella propria dimensione, rende possibile smettere di “pensare a te che mi hai accompagnato in questo viaggio senza parlare. I ricordi si staccano dalla corteccia, vanno alla deriva nello spazio interstellare”. Nel racconto di Carlo, in questo caso, mi sembra che la memoria dia la possibilità all’identità di essere comunque stabile e l’identità, dal proprio canto, funge da collante tra la realtà e il soggetto. Insomma i racconti di Carlo Cuppini appaiono come un’apertura verso una dimensione che prevede la presenza attiva dell’altro e di possibili alterità e lo fa attraverso il recupero della memoria che fa propri i concetti racchiusi nel passato e ne coglie i segnali, attraverso un’identità forse ancora mobile (fluida?), ma in fondo stabile e immutabile nel suo essere e appartenere al soggetto come elemento unico e insostituibile. Bei racconti che meritano una riflessione accurata assieme a quelli degli altri due autori, Giovanni Agnolini e Sandra Salvato. Un libro da leggere come un insieme, anche cercando di dimenticare le differenti firme, scivolando con leggerezza da uno stile all’altro.
Enrico Maria Guidi
Il link alla recensione sul blog di Enrico Maria Guidi: https://bit.ly/3mShJKB