L’incipit di “Anna Karenina” di Tolstoj “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” ben si presta a essere accostato alla tematica che tratta il romanzo “Nulla d’importante tranne i sogni” di Rosalia Messina (edito nel settembre 2023 da Arkadia Editore nella collana Eclype), ovvero la difficoltà nella gestione dei rapporti familiari. Quello a cui aspirano le sorelle Mortillaro, Rosamaria detta Ro e Annapaola detta Nana, non è tanto apparire una famiglia felice, ma dare l’illusione al prossimo di essere normale. Tentativi ripetuti nel tempo e destinati a fallire: «Avevano provato a sentirsi sorelle e non ce l’avevano fatta. Lei, (Nana) senza Ro tra i piedi, viveva meglio, respirava meglio, vedeva perfino una donna più bella nello specchio.» Nana, la più giovane, sebbene dimostri più anni della sorella, tra le due è la figlia di serie B: non bella, piuttosto in carne, insegnante insoddisfatta, al contrario di Ro, viziata, fortunata, nota scrittrice, amante unicamente di se stessa e «che dell’uso appassionato delle parole aveva fatto un mestiere, le amava solo quando poteva leggerle e scriverle. Le parole dette e ascoltate, come diceva spesso, potevano pure andare a farsi fottere.» E ciò la rende distante, rintanata nel suo rifugio: la villa che si è fatta costruire ad Acireale dopo aver abbandonato Catania con la sola compagnia di Anita, all’inizio sua insegnante di spagnolo, poi segretaria, amica fidata, infine moglie, la stessa che afferma convinta «Le famiglie felici non esistono. Nel migliore dei casi, rapporti decenti si reggono su dosi massicce di pazienza e buona volontà; si finge che tutto vada bene, si finge di non capire una frecciata, di non vedere un broncio, si ignora con eleganza un tradimento.» È la prassi come modus vivendi. La gelosia, l’invidia, la rabbia sono tutti sentimenti che animano Nana nei confronti della sorella e la rendono aggressiva, mai conciliante, sempre incline a provocare lo scontro fino alla rottura definitiva del rapporto con la conseguente decisione di quest’ultima, dopo sette anni di lontananza e la scoperta di una malattia incurabile, di mettere in atto la sua vendetta. L’apparente algida Ro, dal canto suo, è ben consapevole dei molti peccati da espiare, dei sensi di colpa provati perché ha avuto molto dalla vita per merito e fortuna e ha tentato di rimediare, inutilmente, elargendo in varie occasioni aiuti in denaro ai figli di Nana, Fosco e Giada. Il primo è ormai avviato a una brillante carriera e manifesta un temperamento sempre prudente nel mantenere le distanze da ogni coinvolgimento familiare, pur preferendo la zia alla madre, la seconda affoga la propria intelligenza e sensibilità nell’alcol dissimulando durezza e menefreghismo. Ro si vendicherà di ciò che ha ritenuto ingiusto e vissuto come un tradimento attraverso la stesura delle sue ultime volontà, affidando a lettere e a un diario la rivelazione di segreti e rancori, di un amore fonte di dolore e di affetti consolidati nel tempo. Sarà sempre e comunque la parola scritta la sua alleata, l’unica capace di renderle giustizia mostrandocela per quello che veramente è: vittima e carnefice. Ogni personaggio presente all’interno del romanzo ben si presta a evidenziare le peculiarità dei caratteri degli altri anche grazie alla capacità dell’autrice di padroneggiare una scrittura mai superflua, ma attenta a non trascurare i dettagli così da metterci in relazione con i protagonisti immergendoci in quel loro mondo di incomprensioni, di ferite non cicatrizzate. Una storia con dentro storie come del resto è la vita: incontro e scontro di persone, di sentimenti, alternarsi di fughe e avvicinamenti, di dolori e gioie. Nel leggere questo libro mi è venuto spontaneo visualizzare una tavolozza dove un determinato colore risponde a un personaggio. Il nero è Ro, con la sua capacità di dominio, senza ignorare il mistero, il rimorso, il dolore, la morte che la contraddistinguono. Il rosso è Nana, vi è tutta l’aggressività con l’aggiunta di una rabbia difficile da contenere e nutrita nei confronti del mondo. Il blu è Anita, capace di trasmettere calma, cordialità e totale fiducia, l’amica che tutti vorrebbero avere. Il grigio è Fosco, così neutro nel suo agire, nell’evitare coinvolgimenti e nel creare distanze. Il viola è Giada, con i suoi passaggi da uno stato razionale a uno condizionato dall’alcol, dove la parte emotiva e più fragile non trova sempre ripari e viene allo scoperto. Parole e colori. Ho gradito questo inaspettato abbinamento e mi auguro che i futuri lettori possano aggiungerne altri così da completare la palette e ottenere una perfetta armonia cromatica.
Carla Magnani
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Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Il buio delle tre” di Vladimir Di Prima, Arkadia, 2023
Quanto è legittimo inseguire i propri sogni o le proprie aspirazioni? Ce lo chiederemo, tra una risata amara e l’altra, diverse volte durante la lettura del romanzo di Vladimir Di Prima. Lo scrittore siciliano tocca un tema caro a molti tra coloro che vanno alla ricerca di “un colpo di fortuna” che riveli al mondo il talento di cui sono dotati.
Partiamo da Pinuccio Badalà
Così si chiama il protagonista del romanzo ed è un aspirante scrittore. Lui sa fin dal principio che sarà difficile, infatti non ha competenze in materia e non è stato un grande lettore. Nonostante tutto, è convinto che basti immergersi tra i libri, studiare la tecnica, la storia della letteratura e condire le cose con quel talento naturale che qualcuno già gli riconosce. Ha anche dei solidi traumi sui quali edificare il proprio pensiero. Il padre ad esempio è rimasto coinvolto nella strage di Bologna del 1980, esperienza dalla quale si è salvato rimanendo però invalido e ostaggio della depressione; il tumore che devastò la zia, a causa di varie mutilazioni; un ambiente, quello della provincia catanese, che rende gli uomini molli e superficiali, legati alla “dote e al prestigio sociale”. Insomma, Pino Badalà crede di avere tutte le carte in regola per diventare un rinomato scrittore.
La realtà però è un’altra
È finito il tempo delle vorticose argomentazioni, dei grandi teoremi, delle scalate verso le vette del pensiero. Sono finite le sperimentazioni. Il libro è un oggetto, anzi una merce; lo scrittore è un personaggio pubblico, deve essere banale, al massimo un po’ piccato su argomenti che catturano momentaneamente l’attenzione della massa. Solo in quegli attimi, creati ad hoc dal potere, può mostrare un po’ del suo bagaglio dialettico; logicamente, fino a un certo punto. Il neo-letterato deve partecipare agli show che contano, deve essere ospitato nei salotti buoni, deve crearsi il suo zoccolo duro. Logicamente, anche la sua scrittura deve adeguarsi alle tematiche del periodo, così come il suo genio. Ma Pinuccio tutto questo non lo sa; lui è troppo distante dal centro e dalla stanza dei bottoni. Come fare, quindi?
Essere o non essere? Metafisica di un paraculo
Di Prima ha creato un personaggio simbolo della nostra epoca, diviso tra accettazione delle regole e voglia di allontanarsene. La sua lotta per rimanere se stesso, pur sapendo che questo atteggiamento lo porterà all’isolamento e alla morte civile, è forte come quella di tentare ogni strada per farsi notare. Ma questa voglia, comunque, è dettata da una volontà di riscatto che rende Pinuccio un disturbatore, un sovvertitore di ogni decalogo comportamentale. Lo stile scelto dallo scrittore siciliano è ironico, fin troppo in alcuni punti, ma tra le pagine si avverte il dramma del protagonista, il suo dolore che rimbalza contro i muri di gomma della moderna “industria culturale”. Tutto in Pino Badalà è eroico e, come sappiamo, un eroe non può essere definito tale se non vive una tragedia.
Un finale a sorpresa
Ed è quello che ci regala Di Prima. Poi, il resto si fa tra le nostre mani un atto di denuncia, perché certi episodi sono tristemente noti e, per quanto indignino, non manca giorno in cui il “paraculo” di turno non si lasci imbellettare e imbalsamare dagli onori della cronaca, diventando uomo di massa e opinione. Forse bisognerebbe ritornare alla lezione dei greci in merito alla “gloria e all’opinione”?
Martino Ciano
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Molte delle mie letture di quest’anno le ho recensite qui su Masticadores o su altri blog o riviste online: l’elenco è troppo lungo per riportarlo in questo articolo. Dirò soltanto che tra i romanzi che ho recensito, e che sono quasi solo italiani, non mancano i miei amatissimi Sinigaglia, Magliani, Ciampi, Trevi, Ferraguti, sempre pronti a sorprendermi con nuove splendide opere. Tra gli altri autori italiani che ho letto ma non recensito (o non ancora) ci sono alcuni miei colleghi di Arkadia, e voi potrete dire, okay, deve dirne bene perché pubblicano col suo stesso editore, e certo devo ammettere che ai libri di Arkadia rivolgo sempre uno sguardo particolarmente affettuoso, perché è il mio editore, sì, ma anche perché è una realtà che sta crescendo e che meriterebbe di essere più conosciuta e apprezzata poiché molte delle opere che pubblica sono realmente degne di nota. Come Nomi, cose, musiche e città, di Giovanni Granatelli, una raccolta di racconti brevi molto suggestivi, La lacrima della giovane comunista, di Giorgio Bona, e Un bambino sbagliato, di Giovanni Lucchese, di cui sicuramente parlerò più avanti perché avrò il piacere di presentarlo a Pistoia. Tra le scrittrici italiane che ho letto quest’anno voglio ricordare Francesca Matteoni e Rosalia Messina, anche loro già recensite, Fabrizia Ramondino, una scrittrice novecentesca che non finisce mai di stupirmi, Viviana Viviani, che ha pubblicato con Arkadia una bella e originalissima silloge poetica dal titolo La bambina impazzita, e Antonella Cilento, di cui ho letto Solo di uomini il mondo può morire, un libro molto bello, tra il diario e il saggio, che racconta di passeggiate che l’autrice e il suo compagno usavano fare nella Foresta Regionale di Cuma, durante la pandemia di covid, e spazia tra gli incontri inaspettati e curiosi, la rievocazione delle leggende legate al luogo, le riflessioni personali e le considerazioni relative alla questione ambientale. Passando invece agli autori stranieri, tra di loro ci sono senza dubbio i libri più belli e importanti, non perché gli italiani siano da meno, o forse sì, chissà. Si comincia con Lezioni, l’ultima fatica di Ian McEwan, che percorre tutta la vita di Roland Baines, un uomo sempre alle prese con donne dalla personalità fortissima che in qualche modo lo seducono e lo soggiogano: la madre, l’insegnante di pianoforte Miss Miriam, la moglie Alissa. Un’opera magistrale, come tutto ciò che esce dalla penna di McEwan. Ho letto con grande interesse e un certo senso di spaesamento per la sovrabbondanza di pagine, temi, personaggi, due romanzi di due grandi vecchi: Il passeggero, di Cormac McCarthy, e Cronache dalla terra dei più felici al mondo, di Wole Soyinka. Due opere molto belle e importanti ma di non facilissima lettura. Devo menzionare inoltre lo straordinario V13 di Emmanuel Carrère, il reportage del processo ai terroristi che fecero gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi. Mi piacerebbe parlare ancora di altri libri che ho apprezzato molto, italiani e no, maschili e femminili, ma come si fa, nominerò appena Amianto, di Alberto Prunetti, La conca buia, di Claudio Morandini, L’orecchio di Kiev, di Andrej Kurkov. Per quanto riguarda la saggistica, sono molti i libri che hanno avuto su di me una forte impressione. La maledizione della noce moscata, di Amitav Gosh, parte da una vicenda storica sconosciuta ai più, del modo cioè in cui l’arcipelago indonesiano Banda, colonia prima portoghese e poi olandese, nel XVII secolo fu ferocemente spopolato dei suoi abitanti, successivamente ricollocati sulle stesse isole come schiavi, per impiantare la coltivazione della noce moscata. Un caso esemplare di colonialismo arrogante e distruttivo che offre all’autore lo spunto per parlare di storia, popoli, ambiente, sfruttamento. La Q di Qomplotto, di Wuming 1, che analizza il fenomeno del complottismo in modo acuto e approfondito, e Doppio, di Naomi Klein, un saggio molto interessante che spazia tra vari argomenti, difficile da riassumere in poche righe. Contagi, di Kyle Harper, un grande affresco della storia umana dal punto di vista delle malattie che l’hanno afflitta nelle varie epoche. Ho letto diversi libri su un tema che mi coinvolge molto, quello delle migrazioni: il più importante è stato il saggio di Sally Hayden, una giornalista irlandese che da tempo si occupa dell’argomento. E la quarta volta siamo annegati è un testo duro, che si basa su inchieste condotte dall’autrice, testimonianze, racconti autobiografici, e narra senza nascondere nulla il dramma dei migranti che vengono dall’Africa. J’accuse, di Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite, è invece un duro atto di accusa verso la politica coloniale di Israele nei confronti della terra e della popolazione palestinese, con occupazione dei territori, apartheid, stragi e ora la spaventosa guerra che sta distruggendo Gaza. Concludo con una biografia davvero monumentale, quella di Philip Roth scritta da Blake Bailey, imperdibile per chi ama il grande scrittore americano, e con due testi di poesia: la raccolta Corpuscoli di Krause, di Fabiano Alborghetti, e Le case vogliono dire, un libro a metà autobiografico e a metà autocritico di Umberto Fiori, un poeta che mi piace talmente che mi basta leggere un suo verso per sorridere di felicità dentro di me.
Marisa Salabelle
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Della natura di quella forma-romanzo che, da quattro secoli e mezzo, ostinata si avvita nel nostro immaginario, invadendolo con scenari e figure più vere del vero, Lo specchio armeno di Paolo Codazzi eredita la duttilità delle strutture, sempre pronte a modellarsi su filigrane della tradizione e, insieme, ad adattarsi a modi nuovi dell’immaginario e della civiltà che lo contiene. In questo senso, il romanzo moderno non solo fa dell’assenza di una severa codificazione antica il suo punto di forza, volgendolo in piglio metamorfico, ossia ponendo lo scrittore nella condizione di inventare le leggi artistiche di questa forma direttamente nella praxis, nel fare l’opera, modellando, col suo stile e con la sua visione, lo spaccato di realtà da trasformare in narrazione; ma dilatandola a dismisura rispetto agli altri “generi” che, nel mentre, come gusci vuoti, si avviano a tramontare o a entrare in lunghe zone di crisi. La vitalità che rende immortale il romanzo moderno è tutta racchiusa in questo cannibalismo senza requie che porta nel tessuto connettivo della narrazione ora la poesia, ora la filosofia, ora l’antropologia; ora la tirata di costume, l’affondo psicologico, le fonti visive, lo spaccato analitico di storia e rende godibili perfino registri di segno opposto, che d’acchito sembrano inadatti ad attagliarsi al magma affabulatorio del romanzo, come nel caso di una ricognizione meteorologica, di una ricetta di cucina, di un labirinto topografico, di un volo erudito. Lo specchio armeno appartiene a quella genia di romanzi-saggi nei quali plurimi livelli si intrecciano senza sosta e trasformano il meccanismo del plot in un sistema di incastri combacianti al limite del virtuosismo. Un ingranaggio che non lavora solo a cucire episodi, simmetrie temporali, sistema di personaggi, colpi di scena e spazi; ma agisce per costruire una ragnatela di sotto-testi in perpetuo dialogo. In questo senso, nel telaio del suo romanzo Codazzi fa rifluire pagine saggistiche di storia dell’Inquisizione e bozzetti paesistici pervasi di lirismo; antichi erbari che nascondono libri di stregoneria e trepidi slarghi paesistici e urbani di moderne metropoli; nel giro serrato di una sequenza, rovescia, flaubertianamente, il pathos di un funerale nella leggera frivolezza di un matrimonio; oppure fa cozzare il dinamismo introspettivo di una lettera con l’ossessione sacra, al limite del purismo, di un pittore copista per le tecniche e i ricettari antichi. Possiamo passare dalla ricognizione dell’amore che sembra prossimo a scivolare nel nobile codice stilnovista alle “stime metereologiche” viste nell’imbuto del passato storico. Questo fermento policentrico sommuove una materia stratificata, che, in mani meno esperte, sarebbe scaduta nel guazzabuglio dissonante di un patinato tentativo post-modernista; mentre sullo scrittorio di Codazzi la varietà pirotecnica ed esuberante della materia in gioco è tenuta in piedi dalla coerenza e unità dello stile. Ricordo che, all’università, ottimi maestri ci insegnarono che un’opera d’inchiostro, prima di tutto, doveva essere valutata, e, quindi, reggere sul piano del “grado di letterarietà” e del “tasso di figuralità” – due espressioni del lessico critico che ho sempre trovato molto limpide e pregnanti, entrambe perifrasi per dire se l’opera che abbiamo sotto gli occhi funziona a livello espressivo, oppure no. Dall’incipit – la cui principale sintatticamente è incastonata nel mezzo di una raggera d’una quindicina di subordinate, a dirci subito la tenuta per via “di mettere” di questa prosa dal passo lungo (lontana dal prosciugamento per via“di levare” di tanti dettati contemporanei) – Lo specchio armeno si impone come un testo dove ogni costrutto esce da un sontuoso lavorio di cesello, sia a livello di impalcatura sintattica, lavorata per espansione; sia a livello di tavolozza lessicale, come se gli oggetti della rappresentazione dovessero essere nominati fino in fondo con un’esattezza che sfiora un monocolo poroso e lenticolare, tra fiammingo e iperrealista. L’aria di famiglia stilistica è così, da subito, disvelata come un marchio di appartenenza: una sorta di ideale linea genetica che sposa l’alto nitore artigiano proprio di una scrittura “di cesello” al guizzo inventivo e spiazzante – una vena bifronte che viene dalla lezione secentesca di Daniello Bartoli, superbo prosatore, interseca i narratori dal passo lungo, tra Cicerone, Boccaccio e Proust; sfiora Carlo Dossi, riattiva il calibrato “misto di storia e d’invenzione” manzoniano, e rivela la consanguineità con alcuni modelli novecenteschi, come Gadda e Consolo, o contemporanei come Michele Mari, e, per la presenza di opere visive evocate “per verba”, c’è un sotteso e irrinunciabile timbro longhiano rivolto alla tradizione degli scrittori d’arte. Perché la pittura? Perché al centro della trama, incuneata in una matrioska di incastri temporali antichi e moderni, svolta in un costante registro ibrido tra narrazione e saggistica, si muove Cosimo Armagnati, pittore copista, la cui bravura camaleontica viene dalla lezione di maestri come Cennino Cennino e Federico Joni, convinto come questi ventriloqui di maniere che non ci possa essere scomposizione a ritroso del processo creativo del maestro senza fedeltà del medium, senza tecniche che mantengano, nella loro tenuta, una vocazione inattuale. A Cosimo arriva tra le mani una committenza che, nel corso del romanzo, si scoprirà epifanica, tanto da gettarlo in un suadente impulso pigmalionico sospeso tra realtà e finzione, come per il Frenhofer del Capolavoro sconosciuto di Balzac. È questa una delle nervature più robuste de Lo specchio armeno: attraverso Cosimo Armagnati e l’eccezionalità della sua committenza, Codazzi resuscita il mito di Pigmalione e Galatea, volgendo però lo struggimento romantico per la creazione che diventa vita nel suo opposto stregonesco e nefasto. Attorno a Cosimo, in una geografia spalancata tra Firenze e Palermo, si dipanano personaggi come il sovrintendente Ferdinando Vella, sorta di erudito Bouvard, dal naso bitorzoluto, quasi stigma di una maledizione genetica, e con il pallino del dongiovannismo; fino a figure di sfondo, ma abilmente tratteggiate, come Michele Bellomo; mentre la costellazione dei personaggi muliebri si tiene divaricata tra una polarità di seduzione e malia, con la materializzazione di Beatrice, e, all’opposto, uno spazio di riscatto e salvezza con Laura che apre e chiude il romanzo, divenendo, nei lunghi tormenti di Cosimo, entità prismatica e talismano pacificatore. Nel suo processo di scrittura, Codazzi lavora su grandi campiture, delineando fondali storici, epoche, riti, culti, e, poi, d’improvviso, si china, con lente e bulino, e lavora la materia come una maestro orafo o un calligrafo miniaturista. Per questo Lo specchio armeno è un romanzo che si legge come un saggio ed è un saggio che si legge come un romanzo, senza mai perdere la qualità di visione che sorregge entrambi i linguaggi: quell’esattezza di nominazione che è la cifra di Codazzi, come se ogni parola scelta, ogni frase, ogni espansione lessicale ci facesse entrare nella più intima fibra delle cose. O meglio, come se la parola scritta inseguisse il desiderio di diventare la cosa di cui parla. Non è forse questo anche il desiderio struggente che lavora in ogni pittore copista: pantografare, il più mimeticamente possibile, l’opera del maestro? E non lavora così lo scrittore di romanzi, accordando il suo stile e la sua lingua alla complessità del reale e della natura umana?
Davide Pugnana
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Il Festival Giallo Garda fa ritorno al Vittoriale nel 2024 con una serie di nuovi eventi che si terranno presso la suggestiva Villa Mirabella. Il primo appuntamento è previsto per domenica 28 gennaio. Durante questa giornata, si terrà la presentazione del libro “L’OMBRA DI TIEPOLO” scritto da Alberto Frappa Raunceroy. L’evento sarà moderato da Gabriele Marazzina e avrà inizio alle ore 10.15 presso Villa Mirabella. L’ingresso all’evento è gratuito, tuttavia i posti sono limitati. Per prenotare la propria partecipazione è possibile contattare la segreteria del Festival Giallo Garda all’indirizzo segreteria@festivalgiallogarda.it o chiamando il numero 320 1560066. Il Festival Giallo Garda è un evento imperdibile per gli amanti del genere giallo e del mistero. Durante le sue edizioni passate, ha ospitato autori di fama nazionale e internazionale, offrendo un’opportunità unica di incontrare i propri scrittori preferiti e di scoprire nuove opere. L’evento del 28 gennaio è solo il primo di una serie di appuntamenti che si terranno nel corso dell’anno. Il Festival Giallo Garda offre una piattaforma per autori emergenti e affermati, permettendo loro di condividere le proprie storie e di entrare in contatto con il pubblico.
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La ballerina è raffigurata in piedi, può darsi in pausa, oppure nell’istante che precede l’inchino con il quale solitamente ringrazia, non importa se il pubblico, il fato che le consente di esprimersi nell’arte, o Dio che riserva la sua misericordia a chi ha da sopravvivere alla miseria. Ha le braccia rivolte verso la schiena e nascoste dal tutù. La gamba destra avanza appena, mentre la sinistra regge il corpo leggermente più indietro. Il volto della giovane, tenero e assorto, è rivolto verso l’alto. Un corpetto stringe il busto della danzatrice e blocca nella parte superiore il tutù in tela plissettato. Infine, i capelli, raccolti da una acconciatura parsimoniosa che li riunisce sulla nuca. È “La piccola ballerina di quattordici anni”, di Edgar Degas, celebre statua in cera, alta 98 cm, esistente anche in diverse versioni in bronzo, di cui una esposta al museo d’Orsay, a Parigi. Ecco, se al romanzo di Adriana Valenti Sabouret, “La ragazza dell’Opera”, edito da “arkadia”, si volesse accostare un’immagine iconografica, questa non potrebbe essere che la complessa e intensa opera scultorea di Degas, da cui i critici dell’epoca furono letteralmente scandalizzati. Non rappresentava, a loro dire, i canoni universali della bellezza adolescenziale. Ma al grande artista ottocentesco non interessava affatto raffigurare la grazia convenzionale delle ballerine adolescenti dell’Opera, preferendo rappresentarle nel realismo che modellava le loro esistenze, colto così bene dall’attenta e avveduta Valenti Sabouret, che narra una straordinaria autobiografia immaginaria, dove la scrittura, col suo segno estetico, colora di tonalità naturali i sentimenti, le mode e le relazioni sociali di un Ottocento europeo ancora chiuso alla modernità che ne rinnoverà i costumi. “Un giro di vita lusinghiero, e una silhouette in cui brillano in egual misura la grazia e la maestà, una bellezza rara che esalta ulteriormente una fisionomia felice e le forme soavi che Mademoiselle Emile Desmoulins porta in scena a ogni sua vibrante rappresentazione…”: così, viene descritta la protagonista del romanzo, “Milly”, una creatura di umile estrazione, che riflette l’ambiguità di un mondo in transizione, nel quale la legge aveva da poco abbassato il limite massimo del lavoro infantile da sedici a dieci ore e l’arte incominciava a rivoluzionarsi. La Milly sabouretiana, talentosa e tormentata ballerina, interpreta il paradosso della giornata trascorsa tra decori lussuosi, scenografie e costumi costosi, per esibirsi di fronte a un pubblico elegante e libertino, esprimendo con le movenze del corpo lo spirito delle tragedie rappresentate, per tornare la sera nella miseria familiare di una spoglia casa di quartiere, condivisa con una madre che aveva riposto su di lei ogni ambizione. Parigina di adozione, la scrittrice di origine siciliana ha plasmato un racconto mantenuto sapientemente nell’atmosfera di un verismo che non ne ha mai inclinato la valenza storica, sì da apportare al romanzo il contorno necessario e irrinunciabile per esprimere in maniera autentica e senza inganni il sentimento dell’amore, tra la grazia della danza e l’imperizia dell’età giovanile, onori e povertà, sfruttamento e ipocrisia: un quadro realistico e veritiero, dove il limite tra le danzatrici dell’Opera e il marciapiede si era assottigliato, tant’è che queste venivano soprannominate con l’appellativo sprezzante di “petit rat” (topoline). Non di rado, infatti, le ballerine dell’epoca, per mantenere la famiglia, erano costrette a cedere alle avances degli uomini nobili del pubblico. E, qui, l’autrice descrive a meraviglia il contrasto netto tra il gesto scenico e danzante, sintomatico di una bellezza senza perché, e la disarmonia della realtà, che svilisce l’esistenza stessa. Il realismo offusca la grazia, ma non distrugge il sentimento dell’amore, che a prescindere dai risvolti finali alimenta e mantiene viva, più di ogni altra cosa, la speranza di Milly, un personaggio di grande impatto, pronto a rivelarsi nella sua drammaticità, con la chiarezza e la ricercatezza delle grandi figure letterarie. Dovessi sintetizzare il romanzo di Adriana Valenti Sabouret in una sola frase, direi che è “una notevole biografia immaginifica immersa in una imprescindibile coreografia veristica.” Un’opera dalla cifra letteraria certa e con uno stile appropriato, per una lettura esigente.
Oscar Nicodemo
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Moleskine, penna, agenda, smartphone. Ho tutto pronto già da qualche giorno ma, non so perché, ho sempre quella sensazione strana di aver dimenticato qualcosa, ma cosa? Sarà capitato sicuramente anche a voi che in questo momento avete la pazienza di leggere i miei scleri di questo piccolo spazio personale che amo condividere con chi ama leggere come me e conoscere storie interessanti. Avrei dovuto incontrare su Skype la persona che oggi vado a intervistare via mail, ma per motivi di tempo, di impegni e problemi personali va bene così. Avere risposte su mie curiosità anche in questo modo è importante e oltremodo stimolante, non pensate? Leggere un libro, incontrarne l’autore e farci quattro chiacchiere, abbattendo quella parete tra scrittore, musicista, artista e appassionato, fan, curioso. Citando una saga letteraria fantasy si potrebbe dire che “L’inverno sta arrivando”, ma in realtà è già arrivato e si è presentato con il suo freddo “cit..come comanda Iddio”, quindi mi preparo una buona tazza di thè allo zenzero e limone e ci metto una puntina di miele che mi piace sempre tanto, è un toccasana. Che sbadato, quando inizio a vaneggiare, a parlare e a perdermi nei pensieri vado oltre. Vi racconto una cosa: qualche mese fa mi arriva il comunicato stampa di questo libro dalla mia amica e collega giornalista Francesca Ghezzani: Nulla di importante tranne i sogni, della scrittrice Rosalia Messina, edito da Arkadia Editore nella collana Eclypse. Amo l’arte e la fotografia e l’immagine di questa giovane donna in copertina è davvero bellissima, piena di mistero e sofferenza, leggo la trama (che vi metto prima dell’intervista) e mi dico…: “Ok! Devo assolutamente leggerlo e devo conoscere l’autrice”. Per cui concordo con Francesca la possibilità di ricevere copia cartacea del libro e non appena mi arriva mi prendo il mio tempo per leggerlo e farlo mio. Posso dirvi solamente di averlo trovato meraviglioso e intenso, ma non vi svelerò di più perché lo scoprirete attraverso l’intervista.
[trama]
Rosamaria Mortillaro, detta Ro, nota scrittrice siciliana, ha un rapporto altalenante e complicato con la sorella Annapaola, detta Nana, dalla quale cerca di farsi perdonare tutto ciò che ha avuto in più dalla sorte. Nana ogni tanto crea le condizioni per un allontanamento e rende difficili le riconciliazioni. Il filo usurato e più volte riannodato finisce per spezzarsi in modo irreparabile a causa di un banale contrasto innescato da Nana, a seguito del quale Ro decide, con dolorosa lucidità, di volersi sottrarre al gioco delle tregue e dei conflitti. Quando scopre di essere ammalata e di non poter sperare in un recupero della salute, Ro, provata anche dalla fine improvvisa dell’unico amore dal quale si è lasciata davvero coinvolgere, si isola nella sua villa nei pressi di Acireale in compagnia dell’amica e segretaria Anita Attanasio. Qui comincia a progettare la sua vendetta contro la sorella e la figlia di lei, Giada. Inizia così un percorso grottesco e per certi tratti singolare che farà emergere un mondo di contrasti ma anche di sentimenti che riveleranno, finalmente, l’autentica natura di Rosamaria. [/trama]
Comunque bando alle ciance… come vi ho già anticipato, l’intervista è asincrona, per cui ciò che leggerete ora rispetta come sono state inviate le domande e come son arrivate le risposte. Ma so benissimo che lo adorerete.
Carissima Rosalia, posso darle del tu? In caso contrario cambierò tutte le mie domande successive con il voi. Innanzitutto grazie mille davvero per il tempo che mi stai dedicando. Ma cosa più importante di tutte, come stai?
Va benissimo il tu, lo preferisco e di solito sono io stessa a proporlo. Sto abbastanza bene, grazie, ho avuto un periodo complicato dal quale non sono ancora del tutto uscita; devo dire che la promozione del nuovo romanzo, Nulla d’importante tranne i sogni, mi è servita a tirarmi su il più possibile. Tu come stai?
Parole e uova devono essere maneggiate con cura. Una volta rotte sono impossibili da riparare. [ Anne Sexton, Le Parole ]
Penso che sia un ottimo punto da dove partire con le domande, da questa frase che hai inserito nel tuo libro per chiederti una cosa che interessa più me che a soddisfare i lettori, una domanda che magari ti sarai già sentita porre mille volte. Quanto è difficile aver a che fare con le parole?
Domanda molto bella. Con le parole si comunicano pensieri e sentimenti. Con le parole si creano opere d’arte e di scienza. Con le parole si scrivono documenti ufficiali, trattati di pace, dichiarazioni di guerra, atti notarili, testamenti, diari, lettere d’amore, lettere minatorie, denunce anonime, verbali di polizia. Le parole possono essere ingannevoli, possono essere persuasive, possono ferire o consolare. E quelle che ho enumerato sono solo una parte minuscola delle cose che si potrebbero dire intorno alle parole. Quindi, cercando di tirare le fila del discorso, la mia risposta è: maneggiare le parole è difficilissimo, perché possono essere tanto arma distruttiva quanto strumento salvifico e il confine tra le due utilizzazioni è talvolta labile.
Per citare il grande Massimo Troisi in Ricomincio da Tre (o per fare i più chic per citare Michel de Montaigne): “Chi parte sa da che cosa fugge ma non sa che cosa cerca”. Nelle prime pagine del libro mi è piaciuta molto la conversazione che Ro ha con Anita riguardo i motivi che l’hanno spinta a ritornare in Sicilia dalla Spagna e Anita le confida che è rimasta qui a Catania per vigliaccheria e debolezza piuttosto che ritornare in Spagna o andare altrove. Ti sei mai ritrovata nella tua vita a sentirti come Anita, cioè sospesa, bloccata in un luogo senza riuscire a muoverti o a sentirti libera?
Premetto che Ro e Anita hanno atteggiamenti in apparenza antitetici sulla questione del cosa fare quando ci si sente sospesi in un luogo (o in una situazione). In realtà, a ben guardare, anche Ro si è lasciata intrappolare dai suoi sensi di colpa in una relazione malsana con la sorella. Venendo alla specifica tua domanda, Giacomo, la risposta è sì, mi è capitato di sentirmi prigioniera di un ruolo o di una situazione e, non molti anni fa, anche della città in cui vivevo e che sprofondava nel suo degrado. Però non assomiglio in questo ad Anita, che sento vicina solo per alcuni tratti della sua personalità. Anita è generosa e tollerante (io sono buona solo con chi è buono con me), è leale nei confronti dell’amica Ro (la lealtà è un tratto che mi riconosco), è capace di crescere, di mettersi in discussione, di riconoscere i suoi limiti e di sforzarsi di superarli (in questo a volte riesco e a volte no). Ma torno alla domanda: le situazioni in cui non sono a mio agio mi spingono al cambiamento. A volte per girare pagina non è necessario spostarsi in senso geografico, può essere sufficiente mutare atteggiamento, allontanarsi dalle relazioni tossiche, trovare spazi di benessere. Per me la scrittura ha rappresentato anche questo: la possibilità di esprimere una parte di me che nella mia vita professionale era sacrificata. Mi è accaduto anche di trovare nei miei personaggi e nelle loro vicende le risposte a domande fondamentali. Quanto all’essere o sentirsi bloccati in un luogo, ho già accennato al fatto che la Sicilia, che pure amo moltissimo, era diventata per me, a un certo punto, una realtà opprimente, in cui non mi ritrovavo più. E appena è stato possibile sono andata via.
Libertà. Parliamo di Ro, di Rosamaria Mortillaro, della grande scrittrice e della grande donna. Onestamente l’ho trovato un personaggio stupendo, a tratti spigoloso ma ciò che me lo ha fatto amare è stato il suo senso di libertà e appagamento, di debolezza e di forza, di gentilezza e cattiveria. Sembrerà una domanda banale e per questo te ne chiedo scusa, ma mi piacerebbe sapere quanto c’è di Ro in Rosalia Messina e quanto sia stato eventualmente facile o difficile raccontare questa donna così risoluta ma che ha sofferto.
La domanda è tutt’altro che banale. Provo a rispondere. Ro è una versione per certi aspetti estremizzata di alcuni, limitati tratti del mio carattere, mentre per altri aspetti è una versione idealizzata (insomma, assomiglia alla donna che vorrei essere). Ho spigoli che con l’età ho imparato a smussare, anche se ogni tanto vengono fuori in tutta la loro durezza. Sono determinata come Ro ma non ho mai pensato di sacrificare la mia dimensione affettiva e personale alla scrittura; non ho ancora saputo stabilire, però, se si tratti di un pregio o di un difetto. Non mi interessa vendicarmi per un torto, non serve, il male ricevuto non si cancella, non si ripara restituendolo. Piuttosto, come Ro, ho un forte bisogno di giustizia ma mi accontento di riconoscere a ciascuno il suo, di saper vedere nel prossimo e nel suo operato il bene e il male, di non dimenticare il primo e di non sopportare passivamente il secondo. L’idea di giustizia che coltivo è molto semplice e si riassume in una massima antica: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere, insegnamento del giurista Triboniano (VI secolo d.C.). Vivere in modo onesto, non arrecare danno ad altri, dare a ciascuno ciò che gli spetta è una ricetta semplice che siamo bravissimi a complicare con i nostri distinguo. Non è stato difficile raccontare Ro. Lei, Nana, Anita, Giada e Fosco (i figli di Anita), Marika (moglie di Fosco) mi si sono delineati nell’immaginazione così come poi li ritroviamo nelle pagine del romanzo. Ne avevo ben chiare dall’inizio le personalità come pure le interazioni fra loro; poi si sono man mano aggiunti alcuni personaggi secondari che sono figli di minore ispirazione e maggiore studio. I personaggi secondari, secondo me, danno più spessore alla storia e alla sua verosimiglianza, perché la vita è fatta di pochi momenti nel bene e nel male indimenticabili e di molta quotidianità. Ecco, una ben dosata quotidianità (sempre secondo me) è un ingrediente necessario di ogni storia; mi viene in mente il teatro di Eduardo De Filippo, in cui i personaggi secondari contribuiscono a dare alla trama il suo inconfondibile sapore napoletano ed eduardiano. Le vicende che narro in Nulla d’importante tranne i sogni non sono straordinarie, sono cose che possono accadere a chiunque, che accadono ogni giorno. Quello che voglio dire è che scrivo attingendo a quello che so della vita, non al mio vissuto. È solo in via mediata che dalle storie che racconto mi arriva, qualche volta, la risposta a una domanda che non ero ancora riuscita a trovare.
La cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è il suo tempo.
Non sono le parole, non sono i fiori, i regali. È il tempo.
Perché quello non torna indietro e quello che ha dato a te è solo tuo, non importa se è stata un’ora o una vita.
(David Grossman)
Il tempo. Quanto ne dedichiamo in realtà alle persone che amiamo? O quanto ne dedichiamo a noi stessi? Nel libro il fattore tempo è molto presente, soprattutto quando Ro riceve una notizia che la destabilizza e che cambia in quel momento tutto. Ro si rende conto che ciò che le viene concesso è abbastanza per mettere a posto le sue cose. E vendicarsi con la sorella Nana e con i nipoti. Faccio una considerazione ad “alta voce”: non so, onestamente, cosa farei se mi arrivasse quella notizia, non so se mi vendicherei di qualcuno, se caccerei tutto fuori per sentirmi meglio e pulirmi la coscienza, anche se farebbe del male a chi mi sta accanto. Nella serie tv After Life ad un certo punto Ricky Gervais si rende conto che forse comportarsi male con gli altri perché è venuta a mancare la sua àncora, sua moglie, non è un buon modo di vivere. Non sarebbe forse meglio comportarsi davvero bene con il tempo che ci viene concesso?
Domanda difficile, soprattutto se riferita all’uso che Ro fa del tempo quando si rende conto della finitezza della vita. Tutti sappiamo che la vita finisce (e non mi addentro nel tema davvero complesso e spinoso del “dopo”, dell’esistenza di una vita ulteriore che segue “ma secondo alcune filosofie anche precede” la vita terrena). Però è solo quando il tempo stringe che si diventa davvero consapevoli del fatto che la morte fa parte della vita ed è una soglia che siamo obbligati ad attraversare senza sapere cosa ci attende. Per rispondere alla domanda, mi limito a dire che in questo Ro è lontanissima da me. Nei momenti più complicati della mia esistenza sotto il profilo della salute ho avuto voglia di stare soltanto con le persone che più amo e dalle quali mi sento amata. Dei rapporti opachi, tiepidi e dalle mezze tinte non so che farmene (in generale e a maggior ragione nei momenti in cui il tempo sembra farsi stretto e pertanto prezioso). Le malattie importanti mi hanno insegnato a tagliare i rami secchi, a non sprecare le occasioni con le chiacchiere di circostanza, con le relazioni basate sull’ipocrisia, sulla convenienza. Ecco, così io intendo il “comportarsi bene nel tempo concesso”. Riappropriarsi della sfera più intima di se stessi. Stare con chi ci ispira il sorriso, la gentilezza, la confidenza. Uno “stare con gli altri” dal quale è bandita ogni fatica, che consente anche un felice tacersi accanto, grati e appagati della reciproca vicinanza, del puro esistere dell’altra, dell’altro.
Sorelle. Fratelli. Famiglie, con storie, con un inizio e una fine. Storie di gioia, storie di dolore, storie di sofferenze e di litigi. C’è stato un periodo nella mia vita con un lungo intervallo di cose sottintese, cose nascoste, parole non dette o forse parole dette nel momento e nel modo sbagliati. Nel libro, nella tua storia, ci sono Ro e Nana. Loro due con persone di contorno, ma la storia è di loro due, del loro rapporto, di cose avute allo stesso modo, di affetto ricevuto allo stesso modo o diversamente e di talento. E di soldi, di eredità, di testamenti, di cose pretese. Io ho provato, onestamente, molto “dolore” nel leggere tanta acredine tra queste due sorelle. Senza voler entrare nella tua vita personale, dal punto di vista delle emozioni è stata dura scrivere di questo rapporto? Soprattutto quando scrivevi le lettere nel libro?
Ro e Nana sono due personaggi di fantasia nei quali si condensano alcune caratteristiche che ho avuto modo di osservare in molte relazioni familiari. Chi inventa storie osserva e ascolta perché non può farne a meno, come non può fare a meno di costruire storie anche quando non scrive. Almeno, è quello che accade a me, che ogni tanto mi dico: smettila di girarti un film in testa solo perché hai colto un dettaglio oppure hai orecchiato una conversazione e subito l’immaginazione è partita al galoppo e hai fabbricato tutta una storia, un prima e un dopo quel dettaglio, quella conversazione, con intorno un drappello di personaggi. Per tornare al tema, mi è capitato spesso di notare che le relazioni familiari sono talvolta avvelenate da acredine più o meno tenuta a bada, da battute feroci dette con il tono scherzoso e lo sguardo maligno, da interminabili liti ereditarie, da invidie malcelate, da gelosie, da ingiustizie genitoriali reali o immaginarie che si lasciano dietro uno strascico di risentimento, di astio. È un tema che mi ha sempre affascinato e che ho voluto esplorare scrivendone. No, non è stato doloroso, per me non è mai doloroso scrivere; scrivere significa far vivere quell’immaginazione che, come dicevo prima, parte a briglia sciolta da un dettaglio che ai più passa inosservato o appare insignificante. Per quanto riguarda le lettere, ho attinto alla mia predilezione per la comunicazione scritta: quando voglio esprimere qualcosa che per me è davvero importante preferisco scriverla. C’è da dire, inoltre, che amo i romanzi epistolari, nei quali la storia è raccontata direttamente dai protagonisti attraverso lo scambio di missive. C’è da dire un’altra cosa: se è vero che mentre scrivo obbedisco solo alla necessità interiore di raccontare la storia che ho in mente, è altrettanto vero che mi porto dietro il fascino di due famosi romanzi epistolari che mi entusiasmarono quando li lessi, giovanissima: I dolori del giovane Werther di Goethe e Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. I libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i film che vediamo influenzano, almeno nella mia esperienza, il nostro modo di scrivere e anche la scelta dei temi che trattiamo.
“L’unica cosa di cui davvero ti sia mai importato: scrivere, scrivere, scrivere”. Essere Rosamaria Mortillaro, la famosa scrittrice catanese. Questa è una delle cose che Nana dice spesso a Ro. Cosa è davvero importante per Rosalia Messina e quanto avere le attenzioni del vasto pubblico condiziona la tua vita personale.
Mi piacerebbe, naturalmente, essere letta da molte persone, essere tradotta in altre lingue, vedere i miei romanzi prendere vita sullo schermo: mi sembra naturale sognare il successo, se così non fosse perché pubblicare ciò che scrivo? La mia vita cammina però anche e soprattutto su altri binari, l’affetto per mio figlio, le poche amicizie che considero davvero importanti e profonde, la lettura, il cinema. Sì, sono a mia volta una lettrice appassionata e dedico molto del mio tempo alla lettura, a volte alla rilettura di libri che ho amato.
Grazie mille ancora, Rosalia, per avermi dedicato del tempo e per aver scritto questo libro che, ripeto, mi è davvero piaciuto tanto. Con la speranza di leggere qualcosa di nuovo quanto prima, ti saluto cordialmente.
Giacomo
Grazie a te, Giacomo, per aver letto Nulla d’importante tranne i sogni e per le belle domande che mi hanno spinta a interrogarmi su me stessa e sul processo creativo da cui è nato il romanzo. Lo sguardo di chi legge illumina aspetti della mia scrittura che spesso mi sorprendono. Non sempre sono consapevole di tutto il materiale che ha contribuito alla costruzione della storia e dei personaggi; sono le diverse letture che mi vengono proposte a chiarirmi la genesi di alcuni aspetti che davo per scontati senza conoscere il percorso sottostante (vogliamo dire la parte inconscia del percorso? E diciamolo, magari è una sciocchezza che uno studioso della psiche casserebbe, ma azzardo lo stesso e “se mi sbaglio mi corrigerete”). Per quanto riguarda il futuro, posso dirti che ho già inviato all’editore un altro manoscritto che spero diventi un libro e mi auguro possa piacerti. Un caro saluto.
Rosalia
Giacomo Ambrosino
Il link all’intervista su FixOn Magazine: rb.gy/bp4vaw
“Folisca” di Miriam D’Ambrosio è un romanzo straordinario che ha immediatamente catturato il mio cuore e la mia immaginazione sin dalla prima pagina. La storia di Rosetta, la sfortunata protagonista di questo affascinante racconto, è già nota a molti, ma l’autrice è riuscita a darle vita in modo eccezionale, regalandole nuova profondità e significato all’interno del contesto storico milanese. La scrittura di D’Ambrosio è semplicemente magistrale. La sua abilità nel creare personaggi autentici e nell’immergere il lettore nell’atmosfera vibrante di Milano del passato è straordinaria. Si percepisce il suo impegno e la sua minuziosa ricerca, che si traducono in un’esperienza di lettura coinvolgente e avvincente. Grazie a questo romanzo, ho avuto l’opportunità di viaggiare indietro nel tempo e vivere le emozioni e le sfide di Rosetta in modo intenso e coinvolgente. Il libro in sé è un vero capolavoro, non solo per la sua storia avvincente, ma anche per la cura con cui è stato creato. La copertina è affascinante e cattura perfettamente l’essenza del romanzo. “Folisca” è molto più di una semplice storia, è un autentico viaggio nel passato che offre una nuova prospettiva sul presente e sul futuro. È un racconto che si trasforma in una testimonianza preziosa di un’epoca passata, ma che continua a essere rilevante e significativo anche nei giorni nostri. “Folisca” di Miriam D’Ambrosio è una lettura imperdibile per chiunque sia affascinato dalla storia di Rosetta o sia interessato a esplorare le profondità dell’animo umano in un contesto storico affascinante. È un romanzo che rimarrà nei cuori dei lettori per molto tempo dopo la sua lettura, una vera gemma della narrativa che consiglio vivamente a tutti.
Una storia vera
La storia di Rosetta, la giovane “canzonettista” milanese del 1913, è una vicenda intrigante e misteriosa che cattura l’attenzione e l’immaginazione. Dino Messina, autore dell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera, ci conduce in un viaggio nel passato di Milano, in un’epoca in cui la vita notturna era vivace e la cronaca nera cittadina era all’ordine del giorno. Elvira Andrezzi, conosciuta come Rosetta, era una giovane donna di meno di 18 anni, coinvolta nella prostituzione ma con il sogno di sfuggire al mondo della malavita diventando una “canzonettista”. La sua storia tragica è al centro di una canzone popolare cantata anche da Nanni Svampa, una testimonianza della sua presenza indelebile nella cultura milanese. La notte del 27 agosto 1913, la città fu scossa dalla notizia del presunto suicidio di Rosetta, avvenuto durante un incontro notturno con un’amica e quattro uomini in una carrozza. Tuttavia, la versione iniziale dei fatti si rivelò distorta. La giovane vittima, Elvira Andrezzi, con un destino segnato per il 1° settembre, era una figura di straordinaria bellezza e un talento emergente nel mondo dello spettacolo. Aveva calcato le scene di teatri prestigiosi e sembrava destinata a una carriera brillante. Tuttavia, non era riuscita a liberarsi completamente degli ambienti della prostituzione e della malavita milanese, un fatto che sarebbe costato la sua vita. L’inchiesta condotta dall’Avanti! e il lavoro investigativo dei giornalisti socialisti svelarono una storia diversa da quella raccontata dalla polizia. Sembrava che la sera dell’incidente, Rosetta e i suoi amici non avessero intenzione di lasciare il luogo in cui si trovavano. Gli scontri con la polizia sfociarono in un uso eccessivo della forza, con Rosetta che subì ferite gravi. Fu durante il trasporto in ospedale che si dice abbia ingerito le pillole di sublimato corrosivo, apparentemente per evitare l’arresto. Tuttavia, dubbi emersero sulle cause esatte della sua morte. L’inchiesta rivelò anche il coinvolgimento di un agente di polizia, Mario Musti, nell’incidente. Ci furono voci che suggerivano che l’agente, di origini calabresi, fosse invaghito di Rosetta e che questa passione non corrisposta potesse averlo spinto a perseguitarla. Il processo che seguì nel 1915 vide Musti e un altro agente, Antonio Santovito, assolti per mancanza di prove concrete. L’autopsia confermò la morte per avvelenamento, ma la versione ufficiale non fu mai pienamente accettata dalla comunità. La storia di Rosetta è diventata un elemento fondamentale della cultura popolare milanese, sopravvivendo attraverso la canzone “Povera Rosetta,” cantata in diverse varianti da numerosi artisti. Questo dramma umano, caratterizzato da colpi di scena e intrighi, continua a catturare l’immaginazione e a mantenere viva la memoria di una Milano che non esiste più. La scoperta della foto di Rosetta nel 1980 aggiunge un tocco di romanticismo e mistero a questa storia affascinante e complessa, restituendo una dimensione umana a una figura che aveva segnato profondamente la storia della città.
Il link alla recensione su Il Riflettore: https://bitly.ws/39ztN