Esce oggi, 8 dicembre, in libreria “Il buio delle tre” del regista siciliano Vladimir Di Prima. Non è un’opera a tinte rosa, e neppure gialle o nere come oramai impone il mercato. Quello di Di Prima è un romanzo-denuncia contro il declino culturale e intellettuale del Paese negli ultimi quarant’anni. Ed è per tale motivo che “Il buio delle tre” (Arkadia editore) sarà uno dei titoli più controversi e scoppiettanti del 2024. L’idea nasce dalla voglia di denunciare lo stato di degrado dell’industria editoriale che non guarda più alla qualità letteraria. Il romanzo è stato scritto da Vladimir durante la pandemia. La vicenda narrata inizia con rimandi all’incidente di Ustica, passando per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, attraversando poi alcuni dei momenti chiave della Storia in riferimento non solo al nostro Paese ma anche all’intero globo (l’elezione di Gorbaciov, la strage di Capaci, il crollo delle torri gemelle, la cattura di Bernando Provenzano, l’attentato al Charlie Hebdo, per citare qualche esempio). Questo pretesto narrativo permette di collocare in successione la vita del protagonista, Pinuccio Badalà, figlio di un sindacalista coinvolto nella strage di Bologna e poi morto qualche anno dopo in seguito a un bizzarro incidente, il quale, a un certo punto sogna di diventare uno scrittore affermato. La legittima ambizione lo porterà, però, a scontrarsi ripetutamente contro tutti quegli ostacoli posti in essere da un sistema refrattario alla meritocrazia e al talento, un sistema descritto minuziosamente nei suoi vizi e nelle sue miserie quotidiane. Ne viene fuori un amaro e grottesco affresco dell’editoria italiana, dei costumi, dei silenzi, financo della rassegnazione che serpeggia come un male oscuro fra i gangli della provincia più remota. Lo stile e la scrittura, elementi che caratterizzano il testo insieme alla costante ironia di fondo, restituiscono grande scorrevolezza alla lettura suscitando contrapposti sentimenti di rabbia ed empatia. Un romanzo insolito e molto coraggioso, in aperta rottura con le mode del momento e che sfida, senza timore di ripercussioni, la decadenza dei tempi.
VLADIMIR DI PRIMA
È nato a Catania nel 1977. Dopo la maturità classica si laurea in Legge e successivamente consegue un Master di secondo livello in Criminologia. Da oltre vent’anni fa parte del comitato organizzativo del Premio Brancati. Film-maker indipendente (ha collaborato, fra gli altri, con Lucio Dalla) ha all’attivo diversi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. È autore de Le incompiute smorfie (2014), Avaria (2020) e La banda Brancati (2021). Nel 2023 ha realizzato un docufilm con protagonisti Giuseppe Lo Piccolo, Marino Bartoletti e altri importanti attori del palcoscenico nazionale.
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Disperdiamo emozioni lungo i tragitti che percorriamo; qualcuno forse avrà modo di riviverle. Non importa che esse siano state belle o brutte, intense o meno intense; nulla svanisce per sempre. D’altronde. anche questo è un aspetto dell’eternità. Lo specchio armeno di Paolo Codazzi ci lascia questo messaggio, dopo averci consegnato profonde riflessioni sulla Storia, sul nostro modo di pensare e sulle interpretazioni che diamo al passato. Con uno stile ricercato, nel quale la parola è ponte tra Cielo e Terra, capace di innescare una narrazione che si distribuisce su più piani temporali, lo scrittore fiorentino riempie di memoria ogni luogo e ogni anfratto che appare tra queste pagine. La trama lineare lascia spazio a uno sviluppo del tema complesso, in cui ogni confine tra narrativa e saggistica viene superato. L’obiettivo è infatti creare le condizioni tramite cui il lettore possa venire a contatto con un ambiente vivo, mutevole, ma allo stesso tempo determinato dagli eventi passati che lo hanno attraversato. Cosimo è un pittore, un copista per l’esattezza. Per lui questo non è solo un lavoro, ma è anche un’attività creativa; infatti, in ogni opera che ricompone inserisce qualcosa di suo. È un modo per fare risaltare quel principio di inarrestabile trasformazione che rende unico anche ciò che sembra identico. Dopotutto, nulla può essere riprodotto fedelmente. L’uomo è le sue emozioni, così come è la sua epoca. Per il suo nuovo lavoro, Cosimo si reca in Sicilia per studiare l’opera che dovrà copiare, ma la storia che avvolge il tutto è intrisa di Inquisizione, di stregoneria, di amore e di lutto. Tutte cose che hanno a che fare, a cinquecento anni di distanza, anche con le sue vicissitudini personali. C’è un evento in particolare che lo scuote e lo fa piombare in un lungo déjà-vu, ossia la morte della sua fidanzata, Laura, che avviene un mese prima della celebrazione del matrimonio. Man mano che Cosimo si imbatterà in questa storia, quel trauma mai superato, in cui sopravvive il lutto, contribuirà ad aprire veri e propri varchi temporali Sia ben chiaro, questo non è né un romanzo storico né un fantasy, tantomeno ci sono elementi gotici. Siamo di fronte al dramma di un uomo che fa i conti con la Storia e con coincidenze che si sviluppano intorno a temi attualissimi. Codazzi ha il merito di allineare tutto con semplicità ed efficacia, senza ricorrere a stratagemmi. È la Storia che riesce a fare il resto, ossia il “già scritto” e il “già accaduto” che vengono riproposti in altre salse. D’altronde, la nostra vita appare a volte come una ripetizione che prova a essere sconvolta dalla ricerca di una novità. Fatto sta che le emozioni sono sempre quelle. L’amore, la sofferenza, la gioia producono sempre gli stessi effetti, iniettando in noi solo una passeggera sensazione di “mai sperimentato” e di egoistico “primato”. E forse, per dirla alla Cosimo, anche la sua storia è la riproduzione di una vicenda ben più clamorosa e nota, che un pittore-demiurgo sta provando a ricopiare aggiungendo qualche elemento di novità.
Martino Ciano
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Pinuccio Badalà è uno scrittore. Uno scrittore vero, non come quelli che imbrattano fogli perché annoiati da uno spleen che non è neanche uno spleen, ma l’assenza persino del vuoto. Il personaggio, non la persona di Vladimir Di Prima, si muove tra la gente osservando e riflettendo fatti fantasiosi: attentati, abbandono, assassinii, negazioni, falsità. Cose da libri che non hanno nulla a che vedere con la vita. E per questo Vladimir Di Prima – il personaggio? – non potrà mai essere un vero scrittore. A differenza di Badalà. Perché “scrittori non ci si improvvisa. È un mestiere che parte da lontano, da quelle recondite pulsioni di emarginazione, di scarto, di rivalsa verso un prossimo ingrato e irriconoscente, e naturalmente, da una spiccata tendenza narcisistica”. Badalà conosce le tattiche del ministero, è vero, com’è vera la sofferenza dell’essere siciliano. Di Prima no, non lo sa, eppure osa. E scrive. “Noi editori siamo gente pessima, distratta, il più delle volte insensibile; questo è bene che lo sappia.” Eppure, Di Prima vive in “un offuscamento, uno slittamento temporale […] nella codardia di accettare l’idea che la bellezza potesse finire in quel modo, umiliata dal male e da una scienza che non sapeva difenderla”. Qualcosa di assolutamente irragionevole e perverso. A differenza di Badalà. Il quale, come tutti i grandi scrittori passa da tragici rifiuti. “Questo è un segnale” e nonostante “certuni pur di non vedere il trionfo di altri rinuncerebbero mille volte al proprio”, Badalà è lungometrista. Uno scrittore che sa il fatto suo. Perché sa come si fa. Conosce le regole del gioco, anche se la “natura non l’aveva dotato di quelle virtù selvagge e virili che agganciano prontamente l’interesse di una donna”, o di un editore. Perché Badalà ama. Ama la scrittura e l’altro da sé. Ama la giustizia, come Sciascia. E ce ne fossero come Sciascia, si sa. Che poi quando qualcuno ne percorre le orme, lo si manda via. Ma Badalà sa che “chi muore nel cuore degli altri o chi non c’è mai stato, prima o dopo, è destinato a scomparire definitivamente”. Badalà lo sa perché è uno scrittore. E lo ha sempre saputo, anche se “il coro delle disgrazie non risparmia mai la vita a uno sciagurato finché non riesce a rovinargliela per sempre”. Badalà è uno che non si dà per vinto, perché ha la stoffa del campione. Perché il campione, a differenza del viziato, del debole, del raccomandato, si rialza sempre. E continua, continua, continua a colpire e a essere colpito. E picchietta, picchietta, continua a picchiettare su quella sua dannata tastiera. Ah, ecco Badalà, “seduto accanto a una grande vetrata osserva con riaccesa curiosità il viavai dei vivi. Gente con passo rapido, sempre in direzione di qualcosa, lontana dalla lentezza, dall’immobilismo del fico in Sicilia sotto il quale trascorreva giornate intere a pensare e a leggere”. Badalà si scontra con l’editoria Italiana del disinteresse per se stessa e per il prossimo. L’editoria dell’avarizia o dell’incoscienza. L’editoria dell’oblio della civiltà. Cosa grave nel Duemila. Come se la storia non fosse stata storia. E l’uomo non fosse stato uomo. Badalà si scontra con l’editoria piccolina – spesso ricca – che disprezza il significato profondo della parola letteratura. Perché, nella storia, “i figli di falsi comunisti che s’erano mangiati il Paese con posti di sottobanco, ministeri, cattedre universitarie, appalti ospedalieri. Oppure gente all’opposto: fascisti di lungo corso governati dagli aberranti miti del passato. L’Italia delle lettere era definitivamente caduta in mano a un branco di fighettini viziati.” E in tutto questo, svicolando e, cristicamente, andando avanti sotto la croce della sua macchina da scrivere, Badalà ci racconta la vita di Vladimir Di Prima. Un personaggio in cerca di editore, che si muove in una terra bruciata, la Sicilia. Dove una massa di “bambini biondissimi, bambine biondissime, tutto biondo nell’aragosta di Taormina” fa ancora i conti con le monarchiche oligarchie della cultura-noncultura-checulturanonè. Perché cultura vuol dire bene, progresso e amore. Oltre il tempo. Oltre l’aperitivo e la bottarella dell’oggi. Ma Badalà lo sa. Il problema è Di Prima. “Uno scrittore deve sempre metterlo in conto [il tempo] e sapere che non è mai corrispondente alla durata della propria esistenza. La letteratura è la macchina del tempo” e Badalà guarda “all’incorruttibilità dell’idea”. Le sue mani ci “fanno capire molto della venerazione che ha per la letteratura. È un uomo sacro […] e purtroppo gli uomini sacri oggigiorno sono vittime di un sistema che non li difende.” In Sicilia, a Milano, come a New York. Ma il povero Di Prima è qualcuno “inviso agli editori italiani”, qualcuno che scrive trame non originali con una “scrittura ambiziosa ma la storia così come il personaggio non evolvono”. E si incazza pure. Non ci siamo Di Prima. Lei non sa cosa e come deve evolvere un personaggio. Chieda a Badalà. Lui evolve. E smetta di sognare “settori coinvolti nell’industria editoriale: giornali, libri, televisioni.” Nessuno sta cercando “di tenere costante un livello di bassa coscienza, evitando che qualcuno provochi accidentali risvegli”, nessuno, nostro caro Di Prima. E “se il potere è il mantenimento di un equilibrio, il controllo crea quell’equilibrio”, lei non sa nulla, e non osi, Di Prima. Ascolti Badalà. La trama del libro s’infittisce, la notte si fa candela, s’incomincia a ragionare, i personaggi e la storia evolvono. “La mediocrità è narcotica, genera ignoranza, modella appiattimenti, annulla il giudizio critico diffondendo dogmi e legittimandoli. Il governo superiore si serve proprio di questa mediocrità per ridefinire assetti politici, manovre economiche e persino guerre”. E se è vero che ci sono “autori da evitare”, allora ci viene da chiedere “chi sono questi autori?”. La risposta non può essere che una: i veri scrittori come lei, nostro caro Di Prima. Un plauso alla casa editrice Arkadia.
INTERVISTA A VLADIMIR DI PRIMA
La prima domanda è d’obbligo: quanto di autobiografico si cela nelle vicende di Pinuccio Badalà? Chi è Vladimir Di Prima?
La domanda corretta sarebbe: quanto di autobiografico non c’è nelle vicende di Pinuccio Badalà? Allora potrei rispondere molto poco e quel poco è solo funzionale alla storia. Chi è Vladimir Di Prima? Uno che spero di incontrare prima o poi; è una vita che lo cerco.
Quanto, secondo lei, la deriva dell’editoria italiana, così come la descrive, seppur sardonicamente, nel suo “Il Buio delle tre”, influenza la società italiana di oggi?
Più che di deriva parlerei di miopia programmatica. La società italiana di oggi è il prodotto di uno sgretolamento identitario che parte da lontano. L’espressione culturale del Paese non può che essere figlia di questo processo. Non so in che misura le grandi case editrici possano intimamente influenzare la società di un Paese che legge pochissimo, ma è sicuro che regolano il mercato e regolando il mercato indirizzano opinioni, modellano fenomeni e non per ultimo spacciano per qualità ciò che a malapena è mediocre. Bisogna avere il coraggio di dire “Basta” e io con questo romanzo ci provo.
Lei inserisce le vicende di Pinuccio Badalà in un contesto storico e culturale sottolineando come la storia influenzi gli scrittori che la vivono e come gli scrittori che la vivono influenzino la storia. Quale dovrebbe essere il ruolo dello scrittore e dell’artista oggi?
Non diverso da quello che per definizione è il ruolo dell’intellettuale in ogni epoca, e cioè una figura capace di tenere in vita le coscienze attraverso due principi fondamentali: il pensiero critico e il dubbio costante.
Nel suo romanzo mette alla berlina tutta l’editoria nazionale, anche in maniera parecchio diretta, eppure non vengono fatti nomi precisi. Timore di essere querelato o scelta consapevole?
Fare i nomi non serve. Non serve al discorso in generale e non serve perché il singolo non ha colpe superiori rispetto all’establishment in cui è collocato. Certo, molti mancano di quella sensibilità artistica e intellettuale necessaria per ricoprire il ruolo, ma proprio per questo il colpevole va intercettato altrove.
Cosa si può fare per far tornare la scrittura a ciò che era prima – cosa era prima? – affinché si torni a crescere socialmente, valorialmente, abbandonando la deriva commerciale dello scrivere solo per intrattenere, non far pensare, e vendere?
La soluzione è molto semplice: si dovrebbe smettere di scrivere per almeno vent’anni istituendo viceversa una rete capillare di scuole di lettura con obbligo di frequenza. Bisogna educare le coscienze alla sacralità della scrittura quale atto ultimo, e non declassabile, dell’evoluzione spirituale. Solo un popolo di grandi lettori può sperare in un futuro migliore perché di scrittori o presunti tali ce n’è fin troppi.
Francesco De Luca
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Dopo il successo de Il resto di Sara, la giornalista e scrittrice siciliana di nascita e romana d’adozione Valeria Ancione torna in libreria con “E adesso dormi”, pubblicato dalla casa editrice Arkadia, collana Eclypse. Un romanzo al femminile, intenso e agganciato alla cruda realtà odierna, in cui la protagonista si trova a dover combattere una personale lotta per la sopravvivenza. Geena Castillo è fuggita dagli Stati Uniti per allontanarsi da un padre violento e una madre succube. Arriva a Roma inseguendo il suo sogno d’amore che si trasformerà in incubo e un’autentica prigione: il marito Raffaele infatti si rivelerà peggiore del padre. Nemmeno la presenza del figlio disabile risolve una situazione in cui la brutalità resta il pane quotidiano. L’unica cosa da fare è separarsi. Anzi di più: ucciderlo. Raffaele scompare e la vita di Geena, che in Italia è diventata Gina Drago, sembra prendere una piega diversa. Invece, tutto precipita quando un giorno la polizia bussa alla porta di casa della donna, per condurla con sé: c’è da identificare un cadavere appena ritrovato, che si sospetta essere quello del marito. Saranno la vicinanza di altre due donne, la presenza del piccolo Jonathan, la cui grave disabilità è la cosa più normale nella vita di Geena e un incontro casuale con un uomo affascinante a cambiare la prospettiva e riaccendere la speranza di ritagliarsi un pezzo di felicità nel mondo. “Un romanzo che mi ha aperto il cuore fin dalle prime righe…” ha dichiarato l’editore e “il romanzo nel cassetto” dell’autrice, come ella stessa ha spiegato. “Scritto dopo l’esordio del 2015 (La dittatura dell’inverno, ovvero Nina), di tanto in tanto ci tornavo aggiustando qualcosa, cercando la sua giusta evoluzione. L’ho riposto facendo finta di dimenticarmene, convinta che non fosse il suo tempo, e ho scritto altro. Con Gina, perché ogni mio libro finisce con l’avere il nome di una donna, volevo raccontare la violenza sulle donne – fisica e soprattutto psicologica -, quella che indebolisce e annulla la persona, che confonde amore con dovere, che legittima possesso e servilismo e che per paura porta a giustificare tutto fino ad accettare, per buoni o per destino, certi uomini. Avevo poi il bisogno di mostrare la disabilità come normalità, poiché è diversità solo finché non ci appartiene (il bambino, ormai ragazzo, esiste, ed è stato fonte di ispirazione). Nello sfondo dominano l’amicizia e il coraggio delle donne, che sono capaci di scelte estreme quando arrivano al basta, al limite. Temi importanti più che pesanti, che fanno parte della nostra realtà, che non sono però sinonimi di tristezza, è come si raccontano che fa la differenza. E tutto questo tempo trascorso mi è servito per capire se avevo raccontato nel modo giusto e se la storia fosse pronta per tutti e non fosse più solo la ‘mia’ storia”. Valeria Ancione, del resto, ama raccontare le donne e questo lo avevamo capito già dalle sue opere precedenti, tra cui Volevo essere Maradona (biografia romanzata dell’ex calciatrice Patrizia Panico) pubblicata nel 2019 con Mondadori Ragazzi, aggiudicatasi il terzo posto al Premio Bancarellino e di cui la Lux Vide ha acquistato i diritti per produrre una serie tv. Attraverso le pagine di questo nuovo libro lo fa dando vita a un romanzo sull’amicizia, condito da un piccolo mistero.
VALERIA ANCIONE
Siciliana, è nata nel 1966 a Palermo, ma è cresciuta a Messina e dal 1989 vive a Roma. Giornalista professionista, lavora al “Corriere dello Sport” dal 1991. Ama raccontare le donne. Si è occupata di calcio femminile, sostenendo sulle pagine del suo giornale la battaglia contro pregiudizi, stereotipi e discriminazione di genere. Del calcio in generale l’attrae la potenza di aggregazione e condivisione, meno le partite. Non è tifosa, ma simpatizza. È convinta che lo sport possa salvare la vita. Giocava a basket, nonostante l’altezza, è sempre a dieta, non ha mai tinto i capelli, legge sempre e ascolta audiolibri, ama il mare in modo viscerale e la Sicilia in modo possessivo, si commuove sullo Stretto, è orgogliosa di essere cittadina di Roma, ha tre figli nel secondo tempo dell’adolescenza che, se non si allunga un altro po’, forse sta finendo.
Nel 2015 ha esordito in narrativa con La dittatura dell’inverno per Mondadori. Nel 2019 con Mondadori Ragazzi ha pubblicato Volevo essere Maradona (biografia romanzata dell’ex calciatrice Patrizia Panico), aggiudicatasi il terzo posto al Premio Bancarellino e di cui la Lux Vide ha acquistato i diritti per produrre una serie tv. Nel 2022 è uscito per Arkadia Il resto di Sara, del quale esiste anche la versione audiolibro de Il Narratore.
Valentina Brini
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Come in certi quadri di realismo cinico, che possono dapprima respingere, ma a guardar bene (in questo caso a leggere bene), è possibile riconoscere icastici elementi della realtà, sia fisica dove l’uomo vive, sia riferita alla fisiognomica umana, ma anche alle assuefazioni al turpiloquio, al meta linguaggio, ai vizi, ai permanenti pregiudizi, di una porzione di personaggi facilmente assimilabile all’umanità nel suo complesso, questo romanzo, per quanto insistito e deformato da una visione apparentemente distorta alla fine deriva, sempre a leggere bene, in una qualche realtà concepita dagli stessi elementi di una figurazione classica o anche di una commedia plautina. Il libro di Massimo Salvatore Fazio, Il tornello dei dileggi, Arkadia 2021, per il contenuto di ipnotico nichilismo nella rappresentazione di un folto gruppo di personaggi (comunque un campione assimilabile), inizialmente può allarmare il lettore e la lettura, ma con il passare delle pagine si è attirati da una mimesi che per quanto alterata e ritenuta estranea alla fine, guardando bene, come in un dipinto, conduce nel labirinto delle nefande contraddizioni umane che per quanto perseverate
nelle pagine convincono dello specchiarsi di una realtà, che ci appartiene, pur affaticati ad immaginarla positiva ma che ogni giorno si rileva nella sua negazione. In questo coacervo di storie l’autore, eclettico intellettuale impegnato in filosofia, pittura, scrittura e in molte altre attività, concede al lettore, sui vari palcoscenici da Roma a Madrid, da Torino a Catania, la storia di un personaggio Paolo, apparentemente capocomico, contornato da una miriade di altri personaggi tutti sbertucciati dai trabocchetti della vita, ma anche veri comunque nell’agonismo
quotidiano dei singoli episodi confluiti nella struttura del romanzo, nel quale insistono intermittenze impetuose, dialoghi apparentemente surreali e remoti rimorchiati dalla materialità di una lingua rarefatta nel cogliere le eccezioni dei comportamenti umani senza alcun sperimentalismo, né tentativo di stupire, dove l’impresario propone, come un burattinaio di pupi, bizzarre ipotesi di comunicazione e conflitti rapporti intersoggettivi a prima vista forzati ma che in realtà testimoniano
l’imbarbarimento di società cosiddette civili immiserite da un progresso che talvolta conduce al decadimento. Romanzo incisivo, farcito di brutale e talvolta patetica ironia, disseminato di contesti esistenziali dei personaggi in un decalogo, a volte buffo, di singole dolorose istanze che si capovolgono incessantemente coinvolgendo il folto gruppo di attori di un ipotetico circolo culturale in cui ognuno può esprimere la propria opinione libero dai condizionamenti sociali, etici e di qualsiasi altra natura su qualsivoglia argomento sia vitale sia riferito semplicemente ad una partita di calcio: pretesto per un’immagine vera e tagliente della vita in cui talvolta è la realtà che imita la finzione: tante storie
come quelle illustrate negli affreschi di Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, che tanto stupirono i contemporanei, ritenendosi benevolmente diversi, così come questo libro sconcerta il lettore che si ritenga estraneo ai comportamenti narrati ma nei quali percepisce lo specchiarsi della propria sporca coscienza.
Paolo Codazzi
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“Ecco un esempio di terrore politico. Non sanno cosa fare. In realtà, la politica non ha mai saputo cosa fare con l’arte, se non comprare gli artisti. Non c’è niente che mi dia più piacere che spaventare questi incapaci».”
Un genio ribelle, audace, anticonformista, stravagante e brillante, tutto questo è Esteban Krause, “ L’artista più grande del mondo”, narrato dalla tagliente penna di Juan José Becerra, uno dei principali autori argentini viventi, entrato nella collana Xaimaca, curata da Alessandro Gianetti, Marino Magliani e Luigi Marfè di Arkadia editore. Esteban Krause, dunque, è L’ artista più grande del mondo, osannato, divinizzato, temuto anche dai potenti, le sue feste sono fastose ed eccessive, le sue opere, le sue esposizioni sono fuori dai canoni degli imbecilli, che comprano un Krause e sono malati di name-dropping. “Krause era famoso nel suo ambiente per creare un clima di controversie interne, aspettative, filtrare il suo nome nella massa dell’informazione generalista al fine di ottenere ciò che considerava la “protezione dell’opera”. Non aveva mai permesso alle sue mostre di confrontarsi liberamente con i critici. Diceva che la critica d’arte non è una scienza, ma un mercato di leccapiedi rancorosi, e che quel mercato aveva un prezzo che lui era in grado di abbassare o rialzare” A raccontare lo straordinario artista è il suo amico e scrittore Juan del Valle, erede di una casa nel quartiere più esclusivo di Buenos Aires, Barrio Parque, completamente da ristrutturare. A chi chiedere una mano se non al suo folle amico artista Esteban Krause!? Krause vive con la bellissima Greta, in una tenuta nel Penedès, vicino a Barcellona, costellata da enormi sculture in ferro e dei vigneti Sumoll che coltiva per i suoi vini, una camera del silenzio dove viaggiare per ritrovare il suo sé fragile e selvaggio, un cubo rivestito da mille coni in vetroresina a mo di trono. C’è una sorta altalenante di sfida e di ammirazione tra i due personaggi nati dalla spregiudicata penna di Becerra, dove anche le figure femminili, Greta e Flavia, diventano oggetti versatili di contesa sessuale. Juan del Valle è uno scrittore costretto dal mal di schiena a dettare il suo romanzo a una macchina, uno scrittore che scrive senza l’uso delle mani, osserva le stramberie e le follie di Krause che sfociano spesso in banalità pantagrueliche, vistosamente eccessive, e paradossalmente, è uno scultore che a sua volta non usa le mani, ma solo il suo pensiero, il suo estro creativo e geniale. Il più grande artista del mondo è uno slancio ironico contro la banalità culturale, la convenzionalità dell’arte e i suoi limiti. Perché leggere L’ artista più grande del mondo? Semplicemente perché è un libro tanto divertente, quanto folle, per tutti i lettori che bramano una trama coinvolgente quanto caustica, un romanzo moderno, a tratti psichedelico, effervescente.L’artista più grande del mondo sferza e ferisce l’università dell’arte sempre più inflazionata e mercificata; l’amore e le sue contraddizioni, tra sesso e materialità; la letteratura e la scrittura che sovrabbonda di scrittori, vicino allo sterminio, in un tempo in cui chiunque può scrivere. Un romanzo ambizioso, pungente, dal ritmo frenetico, ironico e mai banale, Becerra è abile e versatile nella sua tagliente scrittura, ormai icona di stile e di eccentricità che fa di lui una voce fuori dal coro. Volevo scrivere questo libro come un qualsiasi scrittore, come lo scrittore che ero, ma non riuscivo a sopportare il dolore alla schiena. La versione che state leggendo è quella di una macchina, che ho fatto costruire per adattare il mio linguaggio parlato a una trascrizione di cui possa fidarmi. Registra soltanto la mia voce, che soltanto la mia voce può correggere o cancellare.
Juan José Becerra.Nato a Junín nel 1965, è giornalista professionista e segue sia vicende calcistiche sia la critica letteraria. È autore di opere di narrativa acclamate in patria e all’estero come Santo (1994), Atlántida (2001), Miles de años (2004), Toda la verdad (2010), La interpretación de un libro (2012), El espectáculo del tiempo (2015), ¡Felicidades! (2019), Amor (2023). El artista más grande del mundo è stato pubblicato per la prima volta nel 2017 ed è già stato tradotto in diverse lingue.
Loredana Cilento
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L’ha confermato perfino un film: i nazisti cercavano reliquie sacre per sfruttare i poteri esoterici che ritenevano legati a certi reperti famosi, scomparsi nel passato. “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” si sviluppa freneticamente intorno alla contesa mortale del docente archeologo avventuriero inglese, con la frusta alla cintura e un Borsalino strapazzato in testa, contro un corpo di spedizione hitleriano. Si scontrano alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza del popolo ebraico con il Dio d’Israele, un manufatto biblico leggendario ai quali sono attribuiti poteri immensi.
Proprio l’itinerario iniziatico percorso dal Nazismo negli anni Trenta del Novecento è l’oggetto intrigante e suggestivo del saggio di Mauro Tonino, sindacalista friulano attivo ricercatore storico e scrittore, pubblicato col titolo Nazismo esoterico. Il lato oscuro del III Reich. Dal Santo Graal all’ultima Thule, nell’aprile 2023, dalle Edizioni Arkadia (collana “Historica”, 112 pagine). Oltre al mito del capo, al totalitarismo politico, sociale, istituzionale e alle degenerazioni razziali e persecutorie dell’arianesimo, il regime nazionalsocialista alimentò un misticismo occulto. Un’interpretazione tutta propria del millenarismo e di credenze pre-cristiane, che si estendeva alla magia nera e si concretizzava in riti di massa neopagani, ben diversi e più oscuri della roboante mistica fascista, tutta esteriorità e passo romano, per quanto ispiratrice di certi modelli dell’estetica hitleriana.
Alle radici dell’ideologia nazista non sono estranee infatti la teosofia, le pseudoscienze e un confuso arcaismo religioso che sconfinava in pratiche occulte. Importanti gerarchi nazisti erano adepti di società mistiche che avevano il controllo di apparati organizzativi dello Stato. Hitler sosteneva che senza un fondamento spirituale la forza è destinata a fallire, ricorda efficacemente Mauro Tonino.
Aggiunge che i nazisti nutrivano un particolare interesse per le antiche reliquie, ritenendole dotate di poteri magici. Per ritrovarle, organizzarono spedizioni in luoghi lontani ed esotici, alla ricerca di reperti di mitiche civiltà scomparse. Sono aspetti che non devono sorprendere, perché al nazionalsocialismo non erano estranei lineamenti di misticismo ed esoterismo. I suoi leader, Hitler, Hess, Himmler e non solo, erano fortemente suggestionati e attratti dall’occulto. Nel “misticismo nazista”, che a sua volta racchiude molti elementi, rientrano l’occultismo, l’esoterismo, il paranormale, la pseudostoria, il culto della Dea Madre, il richiamo alle antiche mitologie nordiche, la criptoarcheologia, la teosofia, l’ariosofia. Il credo mistico fanatico assunse un carattere quasi religioso in gerarchi di altissimo livello e non c’è dubbio che questo abbia influenzato non poco il corso degli eventi della storia, “quella vera”.
In aggiunta alla letteratura esistente, il lavoro di Mauro Tonino vuol essere perciò una sintesi, che riunisce contenuti storici, protagonisti, miti, aspetti esoterici, filosofici e gli enigmi che hanno caratterizzato il nazismo.
I suoi capi ed esponenti maggiori, quindi, pur basando la potenza militare industriale del Reich sulla scienza e sulla tecnologia più avanzate, tradivano il positivismo di derivazione illuminista affidandosi al credo irrazionale professato nel corso di millenni dagli aruspici, dalle sibille, dagli oracoli e indovini dell’età greca, etrusca, romana, dai druidi presso le popolazioni celtiche, dagli sciamani di altre e più antiche popolazioni, dai santoni in India e dagli uomini di medicina tra i nativi americani. La storiografia ufficiale tende a minimizzare l’influenza dell’esoterismo e dell’occulto sul nazismo, invece certamente più ampia di quanto si potrebbe credere. Dopotutto, per il governo nazista si trattava né più né meno di moltiplicare la potenza materiale del Reich facendo ricorso a risorse spirituali, indicate dalle leggende della mitologia antica e in particolare del Medioevo europeo, impregnato di superstizione: Graal, Lancia di Longino, mondi perduti, reliquie segrete custodite dagli ordini religioso-cavallereschi.
L’ossessione per l’occulto contagiò figure personaggi minori ma pur sempre importanti nell’organigramma delle SS. Messi a capo di sezioni specifiche, svolsero con puntigliosità teutonica i compiti assegnati, sebbene alquanto improbabili. Eseguirono indagini, ricerche, condussero spedizioni, per buona parte legate a suggestioni esoteriche. Considerevole l’impegno profuso dall’Ahnenerbe, l’imponente organizzazione voluta fortemente dal Reichsfuhrer SS Himmler.
Costituita nel 1938, l’Ahnenerbe forschungs und lehrgemeinschaft (Società di ricerca e insegnamento dell’eredità ancestrale) venne dotata di uomini e di grandi mezzi, con a capo l’etnologo e storico olandese Herman Wirth e successivamente l’orientalista Walther Wast. Inizialmente, ebbe il compito di svolgere ricerche e studi nel campo della storia antica, seguendo un metodo scientifico, allo scopo anche di porre basi storico-scientifiche alla grandezza della Germania.
Oltre a istituire centri di cultura, condusse spedizioni in molte parti del mondo, assumendo col tempo un ruolo sempre più ampio, esteso all’astronomia, al clima, all’energia, alla medicina naturale e all’occultismo.
Cosa sia rimasto di quelle ricerche, dopo la “caduta degli dei” nella primavera del 1945, è una domanda che resta senza risposta.
Non è da escludere, però, che l’Operazione Odessa, l’esfiltrazione in Sud America di gerarchi nazisti favorita anche dal Vaticano, possa aver consentito di continuare gli studi in qualche remoto recesso nel Mato Grosso, in Amazzonia o nelle estremità gelide del Cile…
Felice Laudadio
Il link alla recensione su SoloLibri: https://bitly.ws/34Axj
Cari amici lettori,
L’ospite di questa nuova intervista è Paola Musa.
Scrittrice, traduttrice, poetessa, vive a Roma.
Ha ottenuto svariati riconoscimenti in ambito poetico. Collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai insieme a Stefano Di Battista e Dario Rosciglione.
Ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano Di Battista) e per La dodicesima notte di William Shakespeare (regia di Armando Pugliese, musica di Ludovico Einaudi). Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice), selezionato al Festival du premier roman de Chambéry e al “Premio Primo Romanzo Città di Cuneo”. Ha scritto con Tiziana Sensi la versione teatrale del suo romanzo d’esordio, portato in scena da attori vedenti e ipovedenti in importanti teatri romani, e al Festival internazionale Babel Fast di Târgovişte (Romania). Nel 2015 il libro è diventato un tv movie per Rai 1 con il titolo Una casa nel cuore e con protagonista Cristiana Capotondi. Nel giugno 2009 è uscito il romanzo Il terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice) e nel marzo 2012 la sua prima raccolta di poesie Ore venti e trenta (Albeggi Edizioni). Per Arkadia Editore ha pubblicato i romanzi Quelli che restano (2014), Go Max Go (2016), L’ora meridiana (2019), La figlia di Shakespeare (2020), Nessuno sotto il letto (2021), Umor vitreo (2023).
D. CHI È PAOLA?
R. A una domanda così apparentemente semplice non si può rispondere in poche righe, comunque ci provo. Fin da bambina ho cercato uno strumento per interpretare il mondo, sia esteriore che interiore.
La lettura, e poi la scrittura, si sono rivelate nel tempo il modo a me più consono e naturale per definire ciò che sento. A nove anni già scrivevo le prime poesie e i primi racconti, ma non ho mai avuto ambizioni letterarie. Così, ho aspettato un pò, prima di pubblicare. Oggi ho all’attivo due sillogi pubblicate, diversi riconoscimenti in ambito poetico, otto romanzi (il più recente, Umor vitreo, è uscito nel giugno 2023 per Arkadia editore) ma mi sento ancora ‘in cammino’, alla ricerca di qualcosa.
D. CHE SENSAZIONE SI PROVA DOPO AVER SCRITTO UN LIBRO?
R. Scrivere un libro è un processo lungo. Il mio rapporto con la scrittura, nel tempo, è diventato sempre più esigente, soprattutto perchè mi occupo di indagare, attraverso i miei romanzi, la natura delle emozioni umane. Quando, dopo molte riletture, sento che il libro è pronto, provo un senso di liberazione. Anche di vuoto, finalmente.
D. DA QUALE IDEA, SPUNTO, ESIGENZA O FONTE DI ISPIRAZIONE, NASCONO I TUOI ROMANZI?
R. Ho scritto molto di tematiche sociali: carceri, lavori usuranti povertà, crisi econonomica, tra gli altri. Ma anche delle dinamiche sottili e spesso complesse che si vengono a creare nei rapporti familiari. Negli ultimi anni mi sto dedicando, in particolare, a un progetto ambizioso, dedicato ai vizi capitali. Il mio interesse per i vizi capitali nasce per caso, durante la stesura de L’Ora meridiana (2019). Da quel momento in poi ho deciso di dedicare il mio lavoro all’esplorazione di questi abiti del male in chiave narrativa. Esce così un anno dopo (2020) La figlia di Shakespeare (superbia), nel 2021 Nessuno sotto il letto (avarizia) e nel 2023 Umor vitreo (invidia), tutti libri pubblicati da Arkadia editore
D. HAI DELLE ABITUDINI PARTICOLARI DURANTE LA SCRITTURA?
R. Nessuna in particolare. Quando non riesco ad andare avanti, di solito esco e vado a camminare. Il movimento aiuta a mettere ordine ai pensieri, spesso le trame mi nascono spontanee lontano dal luogo in cui le metto per iscritto.
D. CON QUALI COLORI DESCRIVERESTI TUTTI I TUOI PERSONAGGI?
R. Ah, non saprei. Forse la tavolozza dei colori non basta, quando si tratta di emozioni, dove le sfumature sono tante, troppe.
D. C’È QUALCOS’ALTRO CHE VUOI AGGIUNGERE… CHE VORRESTI DIRE AI TUOI LETTORI?
R. Chi mi ha già letto, sa quali sono le tematiche che mi stanno a cuore, e il modo serio con sui affronto la letteratura. A chi non mi conosce, auspico di arrivare, in qualche modo, prima o poi.
D. PROGETTI PER IL FUTURO E SOGNI?
R. Sto lavorando al prossimo romanzo, sempre sui vizi capitali, questa volta dedicato alla Lussuria. Sarà interessante capire se il tema avrà più presa degli altri. Sogni? Scrivere è già un sognare ad occhi aperti, è coltivare storie e mondi in cui altri, leggendo, possono tenerli vivi!
Ringrazio Paola per la sua disponibilità nel rispondere alle mie domande.
Katia Lucido
Il link all’intervista su La Finestra della Letteratura: https://bitly.ws/34zAZ