Pinuccio Badalà ha solo cinque anni quando, in un giorno d’agosto del 1980, suo padre Michele e suo zio Salvatore si trovano a Bologna, alla stazione: devono prendere il treno per tornare a casa, in Sicilia, dove la famiglia li aspetta. Zio Salvatore ha persino comprato un regalino per Pinuccio: un libro. Ma quando la sorte ci si mette di mezzo c’è poco da fare: un boato immenso, la stazione salta in aria, zio Salvatore muore sul colpo, Michele invece se la cava ma tornerà a casa dopo mesi, gravemente menomato. È così che la Storia con la esse maiuscola irrompe nella piccola storia della famiglia Badalà. Pinuccio, traumatizzato dall’evento cui non ha assistito ma di cui paga le conseguenze, non riceverà mai il regalo dello zio Salvatore, ma in qualche modo la passione per i libri gli si incollerà addosso e non lo lascerà più. Il romanzo di Vladimir Di Prima, Il buio delle tre, racconta la vita del giovane Badalà, un ragazzo che ha una sola ambizione, quella di diventare uno scrittore. Come sappiamo non è facile realizzare questo sogno: tanti hanno la passione di scrivere, pochi riescono a dar corpo ai propri sogni, a pubblicare i loro romanzi, ad avere successo, a sfondare. L’odissea di Pinuccio, descritta con molto brio dall’autore, contempla tutti i passi della via crucis: scrivere è il meno, il difficile viene dopo. Trovarsi un mentore, cercare un editore, intrufolarsi in un programma televisivo, tentare di fare amicizia con un autore già famoso o con un giornalista capace di esercitare la sua influenza… E, con l’avvento di internet, seguire i blog letterari, lasciare commenti, cercare gli indirizzi di persone influenti, importunarle come un volgarissimo troll. Nel frattempo la vita di Pinuccio si dipana, tra la madre Santina, comprensibilmente preoccupata per il suo avvenire, il maestro Magazù, suo confidente e consigliere, la possibile fidanzata Enzuccia sponsorizzata da Santina e altri esilaranti personaggi. Un romanzo che si legge con grande divertimento, scritto in una lingua elegante e un po’ ricercata: chissà, se l’avesse scritto Pinuccio avrebbe coronato il suo sogno di successo…
Marisa Salabelle
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La scrittura di Daniele Congiu è robusta, ma al contempo elastica, capace di affrontare la navigazione di un mare attraverso gli occhi e il respiro di un bambino che solo crescendo riesce a prendere aria nei polmoni e calarsi dentro quella profondità degli abissi del perdono e del riscatto. Una saga familiare, una dinastia caduta in rovina quella degli uomini Contu: il cavaliere Leonardo, i figli Alessandro il rapace, Ettore il bello, Silvio il padre perso, Giuseppe il mondo al rovescio, Davide l’io narrante di questa storia. Una storia che attraversa le epoche: i primi del Novecento, la Prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, la Seconda guerra mondiale, l’arrivo degli alleati, i favolosi anni ‘60 e il boom economico e strada facendo arriviamo ai giorni nostri quando ci possiamo trovare davanti al bivio di decidere se continuare a vivere perpetuando il dolore di una arcaica durezza o provare a immergerci nella tenace volontà di aprirci a un mondo nuovo fatto di consapevolezze e di tenerezze dimenticate nel cassetto dei desideri. E poi Cagliari con la sua bellezza di un mondo lasciato a se stesso e le donne di questa storia. Forse a modo loro le vere protagoniste. “Davide! Tu sei l’ultimo dei Contu. Voi maschi della famiglia dannati siete. C’è una maledizione su di voi. Farete soffrire sempre chi vi sta vicino. Ricordati: non affidarti mai a uomini della tua famiglia. Neanche a tuo padre. Se avrai bisogno di aiuto, se vorrai capire qualcosa di più del tuo futuro affidati a una donna. Sarà una donna a liberarti.” E poi il mare. Davide cresce nel quartiere popolare di San Michele ma sogna e vive ogni estate il mare di Cala Cipolla. E’dal mare che riceve la forza e nel mare che trova la sua ragione di vita. E al mare ritorna perché la scrittura di Congiu nasce e trova respiro nel mare. E’ una scrittura, se si può dire, salina quella di Daniele Congiu. E’frammentaria, scogliosa, ruvida ma riesce a raccontare quelle sensazioni che si provano sulla pelle, sulla propria pelle. Congiu riesce a raccontare di loro, di un passato che senza la sua scrittura non sarebbe altro che un lontano ricordo. Riusciamo a seguirlo via terra attraversando strade sterrate, percorriamo insieme a lui quei quattro chilometri in mezzo a lagune salmastre, a nugoli di fenicotteri rosa che ci separano da Cala Cipolla, una cala a sud di Cagliari, sotto Capo Spartivento. Ne ha fatta di navigazione Daniele Congiu, dal suo romanzo di esordio “La chiave di Velikovsky” (Arkadia, 2013), pubblicato anche in Spagna per Editorial Bóveda ed è riuscito ad approdare a una scrittura articolata, fatta di storie e di Storia, una scrittura adulta con la voce di bambino. “Chiusi gli occhi. Sentivo le onde che mi passavano due metri sopra trascinare il mio corpo avanti e indietro, lentamente. E mi sentivo assorbire, sciogliere in quel movimento come dentro un respiro profondo… Inspirare ed espirare. Il mare respirava per me”. E infine torniamo a Cagliari, a questa città di una struggente calcarea rudezza. Torniamo a quell’attico di un palazzo in via Roma sopra al Caffè Torino. Quell’appartamento dove tutto è cominciato e tutto può concludersi con un nuovo inizio, un imprevisto non considerato, una variante, un tragitto di riscatto e libertà. Apriamo la porta-finestra e usciamo sulla veranda. Assisteremo a un spettacolo della natura. “Sopra di noi volteggiavano i gabbiani, sospesi a librarsi nell’aria come aquiloni… da lì lo sguardo poteva spaziare verso il mare aperto. Si vedeva tutto il golfo degli Angeli sino all’isola di San Macario e il Capo di Nora”. Sì erano gli anni.
Maria Caterina Prezioso
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Ho appena rimboccato le coperte a mia figlia che fa fatica a tenere gli occhi aperti mentre guarda la tv dal suo letto. I capelli biondi come il sole, le guance morbide, le labbra rosse come le ciliegie. Le do un bacio sulla fronte e le sussurro “Adesso dormi amore mio”. Spengo la sua tv e la luce, chiudo la porta e sorrido perché so che è serena, che è felice, che si sente amata, so di amarla di un amore che non ha eguali. Essere mamme è qualcosa di meraviglioso e complesso ma non è sempre semplice, spesso è difficile, sovente si perde la pazienza presi dalla stanchezza, dalla quotidianità, dallo stress del lavoro, le responsabilità, i problemi familiari, e nel momento in cui i nostri piccoli chiudono gli occhi per dormire è come se il tempo si fermasse, dandoci la possibilità di recuperare, di respirare, di riprenderci qualche momento per noi stesse. Quando ho iniziato questa lettura, mi sono trovata molto nella stanchezza della protagonista Gina, esausta al limite della sua pazienza, a volte infastidita da tutto e da tutti e anche da se stessa. Gina non è perfetta e non ha la presunzione di sentirsi tale è una donna fragile e forte allo stesso tempo. Debole, insicura e vulnerabile ma sopra ogni cosa è esausta. La differenza tra me e Gina è che la sua vita non è così semplice come la mia, vive una relazione con un uomo violento e con un bambino cerebroleso e ha su di sé tutto il peso delle responsabilità del mondo, di se stessa, di suo figlio e della sua famiglia. Gina è una donna che affronta ogni giorno un inferno fatto di gioie frammentate; tra i pianti di un figlio con cui non può comunicare, e la sofferenza di un marito che attende ogni occasione per farle del male. Gina non ha mai conosciuto amore, tenerezza e affetto nemmeno da parte di suo padre il quale la abusava verbalmente. Gina ha una vita soffocante e oscura, quando conobbe suo marito pensò di aver trovato l’amore, le attenzioni che tanto desiderava avere e sognare e dall’America decise di trasferirsi con lui a Roma nel quartiere popolare di San Lorenzo: un quartiere dove per qualche anno ho vissuto e per cui conosco molto bene quella realtà romana particolare; un quartiere che è un grande paese dove tutti si conoscono, dove tutti si sostengono in contrasto con la vita dispersiva di una capitale Romana presa dalla sua frenetica quotidianità. San Lorenzo è un quartiere a parte, un quartiere che ha un cuore un po’ antico. Quando suo marito scompare si sente quasi libera, seppur con la costante paura che possa tornare a turbare la sua esistenza e quella del suo bambino, la sua vicina di casa e fedele amica è la sua colonna, la sua forza e il suo sostegno, colei che l’aiuta la sostiene e le vuole bene. Molte donne che desiderano un figlio tendono a immaginare la maternità come qualcosa di magico, di naturale, di bello, una dedizione continua, un connubio di amore e tenerezza infinita; ma la maternità è anche disagio, stanchezza, senso di inadeguatezza, frustrazione, è sacrificio e rinuncia. Non lo dico da mamma inesperta ho 4 figli, tutti voluti li amo con tutta me stessa ma non è sempre stato un carnevale di Rio occuparmi di loro, bilanciare lavoro dai turni lunghissimi, la scuola le attività post scolastiche, i compiti, i malanni, le liti tra fratelli e sorelle, le passeggiate, le incombenze economiche, i capricci, una mamma anziana con demenza…Sapete quante volte ho desiderato di non averli? Eh sì sembroblasfema lo so, affermare un pensiero così forte dimostra che non li amo? Eh no dimostra che a volte ho pensato di non essere brava abbastanza, adeguata a sufficienza, perfetta come la società si sarebbe aspettata da me, la mamma con il grembiulino che prepara la torta per i suoi figli, che dedica tutta se stessa alla loro educazione e al loro sviluppo. Io sono una mamma che ha dato sempre molta importanza alla sua professione per due motivi: perché è ciò che amo fare e perché è ciò che mi permette di garantire una vita decorosa e dignitosa alla mia famiglia insieme a mio marito. Mio marito è nato per fare il padre, io son nata per fare la figlia. Sono una donna imperfetta e amo ogni mia piccola imperfezione e mi auguro che i miei figli siano imperfetti e che si innamorino del loro essere senza aver timore di deludere le aspettative di qualcun altro. Gina ci mostra la forza dell’amicizia, la resistenza ai traumi e al dolore, all’accettare che di alcune situazioni che abbiamo vissuto non abbiamo colpa e che non dobbiamo ereditare l’aridità dei sentimenti e delle emozioni dai nostri genitori. Dobbiamo analizzare il nostro cuore, le nostre sensazioni, inseguire i nostri sogni e affrontare anche i nostri stessi incubi da soli ma senza aver paura di affidarci all’aiuto e al conforto di un’amica, che sia disposta ad ascoltarci e ad apprezzarci con tutti i nostri difetti. La donna tende a cercare in un uomo la figura paterna io ho cercato la figura che più si distaccasse dall’immagine di mio padre. Volevo un amore puro, sincero, onesto vero volevo per i miei figli il padre che avrei meritato di avere. Il dolore di Gina sembra una safe zone in quel malessere, in quel pericolo costante; sa come muoversi, sa come gestirsi, sa come affrontare la sua esausta realtà mentre la liberta è qualcosa di grande di immenso; un salto nel vuoto, un’esplosione di aria fresca dopo essere stati rinchiusi a lungo avvolti da un tanfo irrespirabile: in quel momento in cui si respira finalmente l’aria pulita ci causa perfino dolore. Gina è impaziente a volte con suo figlio, lo guarda con amore, a volte rassegnata, altre volte è perfino felice. Un libro che ci mostra il vero volto di una famiglia dove la violenza e il disagio sono radicati nel profondo, dove la disabilità di un figlio viene sobbarcata esclusivamente dalla mamma, che ha speranze, desideri e sogni per un figlio che non sa nemmeno parlare, eppure i bambini speciali ci insegnano un’altra visione della vita. Un figlio è una ragione di vita, un’ancora di salvezza, può essere il mezzo con cui fuggire da una triste e dolorosa realtà. L’autrice affronta la maternità, la disabilità, l’abuso domestico, la violenza psicologica, le battaglie delle donne per le donne, il potere e la forza dell’amicizia: perché ci sono alcune amiche che sono uniche. E quel bambino così piccolo, un angelo fragile nato senza il dono delle ali ma che è ugualmente capace di volare quando a tenerlo per mano è un amore imperfetto e incondizionato. Un romanzo che affronta temi importanti e attuali con rispetto con consapevolezza e responsabilità Una scrittura graffiante che lascia cicatrici sull’anima e sul cuore del lettore ma che ci mostra un volo bellissimo verso la libertà.
Cosa significa Jonathan? Dono di Dio il suo istinto di sopravvivenza come sempre si era messo in moto: “Gabbiano, vuol dire gabbiano”.
Volano gli uccelli volano
Nello spazio tra le nuvole
Con le regole assegnate
A questa parte di universo
Al nostro sistema solare
Aprono le ali
Scendono in picchiata, atterrano
Meglio di aeroplani
Cambiano le prospettive al mondo
Voli imprevedibili ed ascese velocissime
Traiettorie impercettibili
Codici di geometria esistenziale
Migrano gli uccelli emigrano
Con il cambio di stagione
Giochi di aperture alari
Che nascondono segreti
Di questo sistema solare
Aprono le ali
Scendono in picchiata, atterrano
Meglio di aeroplani
Cambiano le prospettive al mondo
Voli imprevedibili ed ascese velocissime
Traiettorie impercettibili
Codici di geometria esistenziale
Volano gli uccelli volano
Nello spazio tra le nuvole
Con le regole assegnate
A questa parte di universo
Al nostro sistema solare
(Franco Battiato, Gli uccelli)
Barbara Anderson
Il link alla recensione: https://bitly.ws/3dGCV
Luciano Cantagalli vive in un paesino del Nord Italia insieme alla moglie e ai figli, ha un’azienda di discreto successo e non ha mai pensato di lasciare la provincia. “I segni sulla terra” di Marco Truzzi (Arkadia) accompagna il lettore verso una dimensione piccola e confortevole, o almeno questo è quello che ci si aspetterebbe da una vita in provincia come quella dei protagonisti del romanzo. Invece, lo scrittore classe ’75 tesse una trama fitta, fatta di incomprensioni, preconcetti, segreti e dubbi di una famiglia che rispecchia in pieno i canoni della borghesia italiana attuale.
Perché raccontare la borghesia?
«Rappresenta una parte della provincia italiana. Ce ne sono tanti che negli ultimi 50 anni hanno costruito una ricchezza diffusa nei piccoli centri e che oggi fanno i conti con il mondo che cambia. Parlare della middle class mi consentiva di evitare certi stereotipi che hanno a che fare con la marginalizzazione di alcune dinamiche o discorsi. Ad esempio, spesso parlando di provincia si affronta il tema dell’emarginazione degli abitanti rispetto alle metropoli, non credo sia necessariamente vero, per questo motivo ho scelto di dare voce a una famiglia di imprenditori».
La borghesia è capace di rinnovarsi nel tempo?
«Uno dei grossi cambiamenti, che volevo mettere in luce con alcune parti della narrazione è la differenza tra la borghesia nata negli anni ’50 che cercava di cavalcare il cambiamento, rispetto alla middle class attuale, che si pone verso il mutamento con un atteggiamento che va più verso il “salviamoci la pelle” piuttosto che sul “rilanciamo il futuro”. Diciamo che prima la borghesia cambiava per sua volontà, adesso cambia suo malgrado».
Lei intanto vive a Correggio, è rimasto in provincia, il romanzo svela delle note autobiografiche?
«Ognuno dei personaggi del libro è la somma di realtà vissute, ma non ci sono spunti personali, piuttosto si tratta di una rielaborazione di un complesso di cose che ho incontrato o visto. Di reale, c’è certamente lo scenario. Anche se la storia viene ambientata in un paesino di invenzione, siamo in Pianura Padana tra l’Emilia, la Lombardia e il Veneto. Poi, riferimenti alla realtà ci sono anche nel racconto della storia imprenditoriale, perché ciò che succede a Luciano ha attinenza con la crisi del 2008 che ha portato con sé una scia di fallimenti e capannoni chiusi negli anni».
Alessandra Farro
Il link all’intervista su Il Mattino: https://bitly.ws/3dBIi
In un’epoca remota e circonfusa di leggenda, il XIII secolo siciliano, gli specchi erano così rari che a Palermo alcuni uomini di cultura araba con il senso degli affari avevano preso a collocarne agli angoli delle strade, in modo che i passanti più vanitosi, dietro un piccolo compenso, potessero controllare l’acconciatura o lo stato dei vestiti. Uno di questi specchi non era di metallo, ma di finissima tela di papiro armeno; si riteneva inoltre che potesse catturare l’immagine riflessa, come una fotografia avanti lettera, a patto che i soggetti che si specchiavano fossero innamorati. È da qui che prende avvio Lo specchio armeno (Arkadia, pagg. 188, euro 16) di Paolo Codazzi, scrittore che per tenuta, statura intellettuale e ambizione linguistica merita di essere annoverato fra i nostri migliori narratori. Al centro del romanzo, che viaggia fra il Medioevo siciliano, il Rinascimento e il presente, è un pittore-copista fiorentino sentimentalmente bloccato, Cosimo Armagnati. A torto lo si definirebbe un falsario, visto che replica quadri con libertà, attingendo all’essenza dell’opera più che alla sua forma esteriore. Quando però un committente gli chiede di duplicare un ritratto femminile custodito in una celebre pinacoteca palermitana, lo stesso che il protagonista aveva visto da bambino su un sussidiario, l’essenza si rivela ingestibile: con il passare degli anni, la donna del dipinto si era trasformata in un archetipo irraggiungibile, condannando Cosimo a un rigido celibato sentimentale. Il «miracolo» di una sua riapparizione al di là dei secoli si verifica nell’aeroporto di Punta Raisi, miracolo moltiplicato in nuove metamorfosi quando il romanzo si sposta in un Quattrocento dominato dalla caccia alle streghe e l’Inquisizione spagnola, istituzione repressiva che per un breve periodo fu imposta anche ai siciliani. La trama, mirabilmente intrecciata, comprende la lettura notarile del lascito testamentario di un ricco magistrato, la scomparsa dalla sua libreria di un volume olandese che anticipa di tre secoli le illuminate proposte di Cesare Beccaria, la vita more uxorio di un alto prelato con una strega… Altrettante linea di fuga per il piacere del lettore; Codazzi scrive (e pensa) talmente bene che può permettersi tutto il «romanzesco» che vuole.
Fabrizio Ottaviani
Il link alla recensione su il Giornale: https://bitly.ws/3dBH3
Le vicende di una dinastia familiare caduta in rovina raccontate da un bambino di dieci anni la cui esistenza si divide tra il buio dell’inverno e l’accecante luce estiva del mare di Cala Cipolla. In un continuo alternarsi di epoche e personaggi, passando dalle due rovinose guerre mondiali al periodo del fascismo, dai “favolosi” anni ’60 all’avvento del web, pagina dopo pagina emergono i lati più drammatici o ironici dei protagonisti di un’opera corale che porta il lettore nella Cagliari del primo Novecento e in quella che poi si svilupperà grazie al boom economico e alla modernità. Immerso nella società un po’ sgangherata di un quartiere emarginato e periferico, a tratti violento, a tratti sublime nella sua umanità, il piccolo protagonista che diventerà poi adulto combatte la sua personale e quotidiana battaglia nel continuo scontro-incontro con le generazioni che l’hanno preceduto, mettendo in luce il confronto tra padri e figli, il bullismo, la fame, la povertà, ma anche la capacità di reagire, il desiderio di superare le avversità e le ingiustizie, di creare alla fine un proprio universo in cui finalmente sentirsi liberi.
Daniele Congiu (Cagliari 1964) comunicatore pubblico esperto in new media, ha studiato in Olanda e in Emilia Romagna. Dal suo romanzo d’esordio ” La chiave di Velikovsky sono stati acquisiti i diritti per un film. E’ autore e sceneggiatore del documentario On Earth as in The Sky.
Il link alla segnalazione su Mondadori Store: https://bitly.ws/3dwsI
Un cinquantenne si trova a passare qualche giorno, intorno a Ferragosto, nella casa di Fregene dove da bambino trascorreva le vacanze. Mentre guarda fuori dalla finestra, incapace di prender sonno, la sagoma di un bambino sui cinque anni gli sfreccia accanto, indossando vistosi pantaloncini gialli: di chi si tratta? È una presenza reale o un’allucinazione? L’uomo segue il bambino, svolta l’angolo del corridoio, quasi si schianta contro il muro… e si ritrova proiettato nella propria infanzia: è lui, quel ragazzino, è lui il “bambino sbagliato”. Ma come può un bambino essere sbagliato? Col piglio naïf ma al tempo stesso saggio tipico di certi bambini, è lui stesso che ce lo fa capire: basta mettersi nel suo punto di vista, vedere le cose come le vede lui. Prima di tutto, quando è nato la sua mamma non era lì con lui: la donna che lo ha messo al mondo, gli hanno spiegato, non poteva tenerlo e lo ha dovuto lasciare, ma per lui è stato un colpo di fortuna, perché così è potuto entrare a far parte di una famiglia formidabile, con genitori affettuosi e comprensivi, una nonna gagliarda, un’infinità di cugini e cugine, zii e zie, uno più divertente e originale dell’altro. Giovanni si accorge di essere “sbagliato” perché i suoi gusti non si allineano a quelli degli altri maschietti e a ciò che il mondo degli adulti si aspetterebbe da lui. Gli piacciono i colori vivaci e brillanti, adora il rosa, gli piacciono le Barbie e detesta Big Jim, che invece gli viene regolarmente regalato con tutti i suoi accessori dai colori spenti e dall’aspetto poco invitante. Sarebbe bello, pensa Giovanni, che ognuno potesse divertirsi con i giocattoli che vuole senza che gli altri pretendano di imporgliene di diversi, socialmente più accettabili; sarebbe bello che gli altri, specialmente gli adulti, ci prendessero semplicemente per quello che siamo, e non per quello che loro vorrebbero che fossimo. Succede anche alla zia Luciana, “comunista e femminista”, di non essere vista di buon occhio; a Pierluigi, un bambino timido che non ama giocare a pallone, alla cugina Fabiola, nata con una malformazione a un braccio e soprattutto così poco femminile da essere scambiata per un maschio e perciò insultata e offesa dagli altri ragazzi. Giovanni è un bambino e proprio per questo vede le cose con occhi limpidi, non ancora incrostati da pregiudizi e stereotipi. Ma imboccare la sua strada non gli è facile, pressato com’è dalle aspettative della sua famiglia. Come quando gli viene regalata una bicicletta, e tutti vogliono che impari presto a guidarla, tutti vogliono insegnargli come fare, e intanto gli mettono addosso un’ansia che lo paralizza. Finché una mattina, mentre tutti ancora dormono, esce piano piano di casa, inforca la bici e dopo qualche tentennamento prende a filare liscio come l’olio: era tanto facile, alla fine!
Marisa Salabelle
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Raccontare una città, i suoi cambiamenti e chi la abita non è mai impresa facile, specialmente se al vero storico si intreccia una narrazione personale. Daniele Congiu ci è riuscito, con “Erano gli anni”, appena edito da Arkadia, ci guida per quattro generazioni in una Cagliari mutante. La saga familiare si districa attraverso i binari della storia e del costume, con attenzione scrupolosa al dettaglio e cura della veridicità. Così, accanto alle vicende dei personaggi creati da Congiu, prendono vita strade, palazzi, attività e addirittura sentimenti che appartengono ormai al mondo dei ricordi. La città è cresciuta, ha cambiato inevitabilmente volto ma ha conservato in qualche angolo e in qualche detto le sue origini. Il lavoro svolto da Daniele Congiu ha infatti anche il grande pregio di tenere memoria di modi di dire, di costumi e usi altrimenti destinati all’oblio. Lo fa in maniera non didattica e non didascalica, calando perfettamente questi elementi nel contesto narrativo. La struttura agile, la scrittura priva di inutili fronzoli ma non minimale, il ritmo serrato, consentono a chi legge di mantenere il giusto equilibrio tra momenti di cadute fatali e risate di fronte agli scherzi della vita. Grande protagonista silenzioso del libro è infatti un destino da intendere alla greca. Le persone si muovono come spinte da un vento occulto a volte benevolo altre devastante. Un romanzo di prospettive, in cui la storia viene raccontata da angolazioni diverse ma senza la fastidiosa sensazione dell’artificio, in modo naturale si affrontano punti di vista diametralmente opposti e legati alla visione dei singoli personaggi. “Erano gli anni”, uscito a 11 anni dal primo romanzo “La chiave di Velikovsky” è anche la storia delle periferie, spesso sfruttate come luoghi esotici da cui attingere aneddoti scabrosi di disagio e follia, e invece nella penna di Congiu assumono il ben più realistico tratto della vita, fatta di regole non scritte, di gesti e parole utili a conformarsi, di slanci per affrancarsi e di ingiustizia. La periferia diventa teatro per l’ingresso in scena di valori altri, grazie ad uno sguardo da insider. Da ogni tragedia emergono comunque la vita e un certo spirito di adattamento, perché altra grande figura invisibile della narrazione è la capacità dell’uomo di ironizzare su ogni cosa. I confini in questo modo paiono più labili, le parole meno dure, gli affanni un po’ più sopportabili in queste vite scombussolate. Daniele Congiu si fa carico di un viaggio nel nostro passato recente e nel nostro presente, scoprendo vizi e virtù con delicatezza e con il rispetto dovuto a una storia che è universale, replicabile in qualsiasi periferia. E forse con il giusto tatto che gli consente, in queste pagine così ricche, di raccontarci anche qualcosa di se stesso.
Giacomo Pisano
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