La vita schifa
Oggi, l’anniversario
28 febbraio 2007
Quando sono morto io si fece festa, una festa stramba e inutile, ridicola come le cose ridicole, una festa che ognuno se ne stava a casa sua a gioire in silenzio, una festa senza brindo, senza mani strette e sorrisi aperti, una festa muta, una festa che se mettiamo uno passava di là non se ne accorgeva che c’era questa festa, era una festa cacchia, una festa senza cerimonie, una festa guasta, e qui, ora, nel mentre che il lenzuolo mi fa prurito sul collo, ragiono su questo fatto della festa e m’incazzo preciso, ripenso alla faccia di mia madre, alla sua faccia che sorride al fruttivendolo con un sorriso orgoglioso, me la vedo che trasporta certe borse piene di fave e nel mentre fa dei cenni di saluto a chiunque, un cala e alza senza criterio, come certi pupi con la testa a molla, poi mi figuro a mio fratello, me lo figuro che cammina spavaldo al centro della strada, che ci cammina come se quella strada fosse sua, strascina i piedi che la gente se lo deve guardare per forza, e per ultimo mi figuro a me, a me giacca e cravatta, fermo immobile, con dei gladioli fra le mani, a me che sono morto un anno oggi, vorrei ricoprirmi col lenzuolo, nascondermi dentro a questo lenzuolo, tramutarmi in una roba, ma resto fermo, decido di fissarmi sul ronzio, è un trucco che mi invento da sempre, questo, che se una cosa mi scassa troppo la minchia io la ignoro, il ronzio è il ronzio di una manopola della radio che gira, che ogni tanto si ferma su una stazione,
Se stiamo insieme ci sarà un perché…
che riprende a girare subito dopo, sciolgo il nodo e il lenzuolo mi cade sulla pancia, resto a guardarlo, io, per me, penso che i lenzuoli c’hanno questo potere: tramutano, che tu per esempio devi partire, ti devi trasferire, devi andartene a lavorare nel continente e allora che siccome che c’hai una casa tutta bella precisa, con mobili e sedie e tavoli e credenze e scrivanie e arredamenti vari, non ti va di fartela mangiare dalla polvere, perciò prendi dei lenzuoli, tutti quelli che trovi, e cominci a ricoprire ogni cosa, tutto quello che c’è,
Così se un giorno capita che ritorno trovo tutto tale e quale,
ma poi, appena che hai fatto, ti parte una ruga di indecisione sulla guancia, e prima di uscire pensi che quello svolazzo fermo, quei lenzuoli con le forme più diverse, stanno tramutando le tue cose in altre cose, non più tue, e la stessa cosa sputata, io penso, capita pure con le persone.
La prendo dalla tasca interna della giacca e me l’avvicino agli occhi: la repubblica italiana si è sminchiata, prima seguiva una linea a semicerchio da punto a punto che somigliava all’insegna di un negozio che ci stava sotto casa mia o all’etichetta di certe lamette che usava mio padre o a una bocca incacchiata, questo prima, ora è solo una macchia svaporata di angoli smussati che si arrotolano in un risucchio e che poi spariscono all’improvviso, come se lo stemma che c’è sotto ne avesse fatto un boccone, quello che è rimasto, rpblina, non somiglia a niente, dentro, accanto alla scritta nome, sopra dei puntini tratteggiati, ci sta ernesto con la e maiuscola, che sarebbe come mi chiamo io, penso che ernesto è un nome troppo caricato, fanatico, di uno con la barba, un nome che non si dice con piacere,
Ernesto,
uno dice, e nel frattanto si sente un poco ridicolo, almeno io credo così, poco sopra c’è scritto scossa, che sarebbe il cognome, e pure se è un cognome strambo mi fa tutta un’altra impressione, che quello nessuno lo ha deciso, quello mi è capitato così, a tutti poteva capitare, c’ho trent’anni, questo perché sono nato il dieci dicembre del settantasette, sta scritto qua, sopra il numero di atto zerodueottoduequattro uno-s che sarà quello di nascita, dall’altra parte c’è la mia firma leggibile e poco a lato quella del sindaco istruttore amministrativo che è uno scarabocchio, sopra ci sta una data scritta a macchina, e facendoci il conto si scopre che è una carta d’identità morta, scaduta, che racconta di un passato che è passato e che sarebbe voluto tornare a un certo punto, come col tasto indietro del registratore, e insomma questa è la carta di mezzo, la terza, da una parte il passato e dall’altra il presente, è la carta di mezzo.
Sette febbraio duemilacinque, entro nell’ufficio delle carte d’identità, non lo so come si chiama di preciso, fuori ci stanno gli operai col martello pneumatico che scavano e arriva un rumore forte e fastidioso, ma io sto distratto coi pensieri sparpagliati nella carta scaduta, nella foto c’ho i capelli più lunghi di adesso, gli occhi sono nocciola di un nocciola chiaro chiaro che è un colore stravagante che pochi c’hanno e difatti mi capitava da bambino che la gente mi fermava per strada, di poi mi fissava per un poco e
Che occhi!
diceva, e io ci restavo con la faccia fissa, di minchia, che non capivo, il naso è normale, la bocca pure, ai lati ci sono due rughe marcate all’ingiù che mi fanno lo sguardo triste, la faccia ce l’ho squadrata e mascolina che qualcuno dice che assomiglio a un certo attore americano con il nome americano che ora non mi ricordo, mi pare che ha fatto un film semi antico dove c’era un grattacielo che pigliava a fuoco e lui ci salvava la gente, io, se mi capitasse a me, non salverei a nessuno, penserei a salvarmi io, per questo credo che non ci assomiglio, a questo attore, perché lui sicuramente ci aveva una faccia calda di uno che salva la gente, io, invece, c’ho un’espressione fredda di uno che manco si salva lui e soprattutto in questa foto, che è fredda che fa schifo, io, prima, non c’avevo proprio un lavoro preciso, un lavoro di uno che esce la mattina e dice
Vado a fare ’sto lavoro e torno alle due,
io, prima, la mattina uscivo e quello cha capitava facevo, l’importante che mi pagavano, per questo ci avevo fatto mettere apprendista, dove ci sta scritto professione, perché ero sempre apprendista di qualcosa o di qualcuno, poi a un certo punto successe il fatto, successe che mi vennero a chiamare un giorno che era lunedì, che poteva essere pure martedì, un giorno che non mi ricordo,
A tale ora a tale posto,
mi dissero, e mi ricordo preciso il suono della voce, fastidioso di cantilena, e così capitò che m’imparai il mestiere, prima avevo fatto un sacco di altri lavori, ho fatto l’apprendista falegname, ma la segatura mi faceva allergia, mi venivano certe bolle alle mani che mi duravano giorni, poi ho imbiancato case, ma non era un lavoro per me, la precisione non mi usciva, e c’era sempre un fastidio che mi veniva nel guardare il lavoro finito, mi facevo questo pensiero
La precisione è un fatto complicato, un fatto che l’uomo lo fraintende, prendi la natura per esempio: ti pare precisa solo perché sei tu che c’hai bisogno della precisione, e così ti fissi che ogni cosa è messa come se fosse messa con un pensiero che l’ha messa proprio in quel modo lì, coi fiori che viene la primavera e spuntano i fiori, gli alberi e il sole e la tempesta invernale, e invece sta tutta nell’imperfetto, la natura, è il contrario della precisione, ed è solo il tuo occhio che la vede al contrario…
e insomma è difficile da spiegarsi e difatti non ci provo neanche, ché una volta che ci provai, col mastro, quello mi disse che ero scassato di cervello, poi ho fatto il giardiniere, ecco il giardiniere mi piaceva, prendevo un seme, lo interravo, gli davo l’acqua giusta e appena la pianta spuntava era un piacere, ci potevo restare pure delle ore fisso a guardarmela, e nel frattanto pensavo
Si vede la mia mano, si vede che l’ho fatta io…
le braccia a tenermi su il mento, il culo per terra, io e la pianta, come due che si sentono, lei e io, ma poi mi è finita come è finita e pace, ho fatto il tuttofare in un magazzino di pesce, l’apprendista muratore, l’apprendista carpentiere, l’apprendista idraulico, l’apprendista panettiere, l’apprendista elettricista, l’apprendista venditore porta a porta, l’apprendista commesso in un negozio di mangime, il semi fattorino in un ristorante di pesce, sono passato a fare l’apprendista cameriere per via che sono snello e che c’ho una bella figura, il vice scaricatore di cose, di nuovo l’apprendi- sta muratore, l’aiuto contadino con mio zio giustino, e infine l’ammazzatore, che è il penultimo lavoro che ho fatto.