Sin rumbo
I
Su due file, gli animali facevano posto a una tavola piena di lana che alcuni uomini stavano legando.
I velli, sul piatto di una enorme bilancia che una cinghia di cuoio teneva sospesa dalle travi del tetto, venivano poi gettati al fondo del capannone e là ammucchiati in alte pile simili al fianco di una montagna in via di scongelamento.
Le pecore, brutalmente afferrate dalle zampe e spinte a lato una contro l’altra, i musi verso il recinto, socchiudevano gli occhi con un’espressione incosciente di stanchezza e dolore, ansimanti, soffocate.
Intorno, e lungo le pareti, gruppi di uomini e donne lavoravano chini.
La fascia che stringeva la pelle nera e dura dei contadini meticci, le espadrillas, i calzoni a mezza gamba, il basco, i pantaloni da gaucho, gli stivali, la tela sfilacciata delle donne si confondevano nella sporcizia.
In mezzo a quel silenzio regnante, rotto a tratti da un la- mento di belati o dalle sbruffonate della plebaglia che tosava, le forbici suonavano come corde di violino, tagliavano, scorrevano, affondavano nel vello come insetti spaventati alla ricerca di un nascondiglio e, di tanto in tanto, pizzicando la pelle, fette intere si staccavano assieme alla lana. Le carni, crudelmente tagliate, sanguinavano dalle larghe ferite.
Da tre portoni soffiava il vento del Nord, simile alle esalazioni riarse di un focolare: «Remedio!», gridò una voce. Era la voce di un meticcio robusto, bassotto, zigomi salienti, occhi piccoli, profondi e sguardo torvo.
Uno di quei gauchos insolenti, falsi come la volpe, selvaggi come la tigre.
Il medico – un vecchio di origine basca – si era avvicinato con un bidone di catrame e un pennello col quale si apprestava a spalmare le labbra di una ferita che l’animale aveva ricevuto nella pancia, quando un uomo, in piedi, accanto all’altro, disse al meticcio tosatore in tono duro: «Dove hai imparato a pelare pecore tu?»
«Oh, e perché mi sta ordinando di tosare a pelle?»
«Quello che ti sta chiedendo il tuo corpo è che io ti tiri un bel ceffone.»
«Manco fossi mio padre!», disse il meticcio. Si tolse una sigaretta da dietro l’orecchio, l’accese con tutta calma e, tenendo le gambe sull’animale che aveva appena ferito, guardò di traverso quello che l’aveva rimproverato, sibilando tra i denti un motivetto.
Con la faccia avvampata e imbestialita per lo scherno e le risate sommesse degli altri, felici di quella risposta, il medico gridò: «Insolente!» E al fragore della voce si unì quello di uno schiaffo.
In un attimo, il gaucho infilò la mano nella cintura e, armato di coltello, d’un balzo assalì l’avversario.
La bocca di un revolver lo fermò.
Allora, con la rabbia impotente della bestia che morde attraverso le sbarre della gabbia, il meticcio arretrò, rinfoderò l’arma e, lasciando cadere le mani, disse: «Perché mi picchia, padrone?» Con umiltà, facendosi tutto mansueto, mentre le labbra gli tremavano di livore.
«Perché impari a comportarti con la gente e a essere un uomo… Villalba, prendigli le latte, a questo qua, pagalo e che non torni neanche in cartolina.»
Poi, agli altri: «Se qualcuno ha qualcosa da dire, può aprire la bocca, dalla porta ci passano tutti.»
Entrò un vortice di vento. In mezzo alla densa nube di polvere, si sentivano i tagli delle forbici dentro la lana, che risuonavano come le corde di un violino.
II
Sulla sommità di una duna a forma di cavallo ingobbito, si alzava un edificio. Un padiglione Luigi XIII, semplice, severo, puro.
Due costruzioni, affiancate a una torre che terminava a cono.
Al primo piano, all’entrata, sopra la scala di sei gradini, una pensilina si protendeva elegante dal tetto.
Dall’ingresso, oltre la porta della facciata, si passava a una sala da pranzo. Alla sinistra c’era l’ufficio, alla destra una scala portava alla torre e alla camera. Il bagno era al piano di sopra.
Ancora più su, nella mansarda, le camere dei domestici, da cui si accedeva al resto della casa, fino alla cucina, e alle cantine, attraverso una piccola scala di servizio.
Dall’alto, e senza disturbare la vista, di fronte, la viva volta di una strada di alberi dei rosari che si apriva in un ampio semicerchio di thuja, intorno alla casa. Dietro, le dipendenze dell’estancia e, sotto, un cortile ombreggiato da viti, con ai lati, pescheti e salici divisi in due da lunghi sentieri di pioppi, da cui si indovinava il tavolato infinito della pampa, come un riflesso verde nell’azzurro del cielo, indifesa, sola, spoglia, splendida, che mostrava la propria bellezza, come una donna nella sua nudità.
Una cintura di nuvole gialle, simile a un immenso campo di trifogli in fiore, coronava l’orizzonte.
Lontano, vapori biancastri, come l’acqua, galleggiavano sulle terre.
Il sole ardente di novembre si abbassava dal cielo come un airone assetato che scende sulla laguna.
Nelle vicinanze, su un poggio, la macchia grigia di un gregge.
E qui e là, disseminate sul territorio, le mucche gettavano una nota allegra con i loro colori vivi. Le pernici, col loro canto triste, malinconico. I cardellini e i pitanghi olforati, stanchi, attendevano la notte nei boschi, le pavoncelle, a due a due, beccavano custodendo il nido e,
allarmate per il volo di un chimango o per la vicinanza di qualcuno che attraversava il campo, si alzavano in brevi voli, si spostavano appena, correvano, si fermavano, si chinavano, svolazzando e liberando il loro verso severo.
Al viavai tumultuoso della mandria, ai rumori del tendone, al fumo dei focolari, alla ressa di animali e gente, cani, gatti, uomini e donne che vivevano e dormivano assieme, sdraiati nel mucchio, a cielo aperto, in cucina, nei capannoni, a tutta questa confusione, questa vita, questo casino delle estancias durante la tosatura, era seguito un silenzio desolato.
Nemmeno il vento, calmo, sembrava turbare la tranquillità inalterata del pomeriggio.
Alla finestra aperta della sua stanza, sdraiato su un’amaca, alto, biondo, la fronte sfuggente, solcata da una ruga verticale tra le sopracciglia, gli occhi celesti, dolci, di quella gente che è impossibile guardare senza subire l’attrazione misteriosa e profonda delle loro pupille, la barba tondeggiante, lunga, in parte grigia ormai, anche se da poco aveva passato la mezza età, stava Andrés.
III
Attraverso il fumo del sigaro, il suo sguardo vagava smarrito nello spazio.
Tornava ai ricordi del passato, sbiaditi, alcuni vecchi, cancellati dal tempo come la distanza cancella i colori; altri freschi, vivi, palpitanti.
I ricordi della prima infanzia, i sei anni, la scuola, la maestra – la signora Petronita – con lo
staffile e il fazzoletto di lana a quadri, il quaderno, Astete e, poi, le grandi, oggi appassite, madri, molte di loro nonne.
Poi, Mr. Lewis, il collegio maschile, semenzaio di commercianti, lo spirito positivo e pratico del padre che tentava di invogliarlo alla contabilità, il tedesco, l’inglese, per farlo entrare in un ufficio.
L’opposizione determinata e paziente della madre, ciecamente affettuosa, che sognava altre vette per il figlio, complice involontaria della rovina, sempre pronta a difenderlo, a trovare ben fatto quel che faceva, a considerarlo una vittima innocente del dispotismo paterno, lui, che alla fine vinceva come vince lo scaltro sul forte.
Una volta – e il ricordo di quel lontano episodio della vita apparve chiaramente nella memoria – una volta era giunta a Buenos Aires una francese, non giovane, stupida, magra e brutta, ma… era un’artista, cantava al Teatro Colón.
Successe che, acceso dal fuoco di una di queste fantasie da adolescente, che ha il potere di trasformare in un paradiso il camerino maleodorante dietro le quinte delle commedie, si fece presentare a lei dall’impresario, un vecchio italiano corrotto, e la notte della prima le inviò in regalo diecimila pesos in gioielli.
Per sbaglio, il conto cadde nelle mani del padre.
Seguì una scena violenta. Irritato, il vecchio disse che chiudeva i cordoni della borsa.
Il figlio, insolente, replicò affittando una camera all’Hotel de la Paz.
Iniziarono allora le trattative della madre, le tacite contrarietà, le ire, gli ostinati silenzi lunghi giorni, settimane, quella morte a coltellate, quella guerra sorda e senza quartiere delle donne che alla fine trasforma la casa in un inferno.
Non molto tempo dopo, giunse tra le mani del figlio una lettera con queste parole: «Se non ti bastano quindicimila pesos al mese, prendine trentamila, ma torna.»
L’università, pensava Andrés, epoca felice: dolce far nulla, per lui, studente e ricco!
Il Club, il mondo, i piaceri, il sapore della gioventù preso a piene mani, le abitudini del passato abbandonate, inaridito, per mancanza di occupazioni e di lavoro, quello spirito che ha nella vita, come le femmine durante l’anno, secondo il detto, la propria primavera di fecondazione e desiderio.
E poi, poi tutto è inutile, impossibile, è il ramo di salice sepolto, quando il sole scalda.
Vani gli sforzi, i tentativi di reazione, i progetti, le ipotesi di cambiamento alla luce della ragione, un fugace raggio di sole tra le nubi.
Vani i propositi di correzione, lo studio del diritto abbracciato per un istante con ardore e poi abbandonato con fastidio. L’improvviso entusiasmo per la carriera di medico, l’amicizia con gli studenti poveri di San Telmo, l’amore per l’anfiteatro anatomico terminato con la nausea micidiale della prima autopsia.
Vane, più tardi, le velleità artistiche, le fugaci aspirazioni per ciò che è maestoso e bello, le scuole di Roma e Parigi, il Vaticano, il Louvre, gli Uffizi, gli atelier dei maestri Meissonier,
Monteverde, Madrazo, Carrier-Belleuse, intravisti e abbandonati per una scuola migliore: il gioco, le donne, le orge.
E in un momento di nausea, di stanchezza, di avversione profonda per tutto, i viaggi, il mondo, e sempre, e dappertutto, in forme varie e diverse, la stessa oasi di orrore.
Insensibile, dilaniato, senza fede, con il cuore di pietra, l’anima inaridita, annoiato dalla conoscenza della vita, da quell’insieme di bassezze umane: provvisto di un immenso arsenale di disprezzo per il prossimo, per se stesso, che ne sarebbe stato di lui? Chi era alla fine?
Niente, nessuno…
Qual era la sua stirpe, il suo lignaggio?
Non aveva fatto in tempo, prima che il disgusto lo vincesse, a dilapidare tutto quello che rimaneva di ciò che suo padre era riuscito a mettere da parte: «Ah, certo», disse a un tratto Andrés, con un gesto di profondo sconforto, gettando la punta del sigaro che gli bruciava le labbra, «un bastardo, un miserabile bastardo.»
Era calata la notte, tiepida, trasparente.
Una nebbia spessa iniziava a salire dalla terra.
Il cielo illuminato di stelle era il lenzuolo di un’immensa cascata che si rovesciava a terra e, nel cadere, alzava gli schizzi dell’acqua che si frangeva nello schianto.
Andrés, appoggiato alla ringhiera del balcone, guardò per un istante. «Uh!», fece incrociando le mani dietro la testa e sbadigliando a lungo. «Che soluzione! Domani andrò a trovare quella ragazza meticcia…»
Accese la luce, si mise a letto e aprì un libro.
Mezz’ora dopo, chiudeva gli occhi su queste parole di Schopenhauer, il suo maestro preferito: «Ci accorgiamo del tempo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla.»