Segreti
I nostri nomi
La piccola Leonor è sepolta in una fossa comune. Durante la guerra mia nonna perse la sua prima figlia. Si chiamava Leonor e morì di freddo. Mia nonna non parlò mai di lei. Mai. Non so molto di quella bambina, forse è l’unica cosa che so. Proprio per questo motivo, quel dato incompleto, spoglio, spilorcio, lo ascoltai nelle discussioni durante i pranzi di famiglia, nei pettegolezzi di paese, nei borbottii degli anziani e nei sussurri di qualche funerale.
Alla fine di una cena di Natale, quando gli adulti avevano bevuto vino e champagne fino a perdere il pudore, ci fu un battibecco. Era notte fonda, e loro, mezzi ubriachi e intrepidi, ignorando la nostra presenza – lo ricordo come in un sogno – dissero che la piccola Leonor non era morta di freddo, ma di fame. Mia nonna non disse nulla, mia nonna non diceva mai nulla, ma in quella cena alla viglia di Natale c’erano anche due mie zie alla lontana, che litigarono. Non si mettevano d’accordo sulla causa della morte della bambina e discussero con fervore e senza rispetto, come se mia nonna non fosse seduta allo stesso tavolo, come se la soluzione di quell’enigma fosse lo scopo delle loro vite. Durante la cena, a un certo punto, divennero complici e ostinate, come due cani da guardia. Litigarono furiosamente con il marito di qualcuno e poi con il trombettista, quel gigantesco vecchio il cui nome conoscemmo solo molto tempo dopo. Quel vecchio che puzzava di urina e caramelle mou e che parlava sempre della creaturina con un misto di commozione e di certezza, come se avesse tenuto tra le braccia la piccola Leonor il giorno in cui era morta.
Quella notte, come in altre situazioni familiari, quando gli invitati bevevano abbastanza da far saltare la polveriera dei pettegolezzi e dei segreti del paese, mia nonna, semplicemente, scompariva in cucina. Accendeva la radio e lavava i piatti, come se la discussione sulla piccola Leonor non la riguardasse. Io e mio fratello ci nascondevamo sotto il tavolo del salotto e restavamo in ascolto, immobili, registrando le diatribe dei grandi. A volte trattenevamo a stento una risata o un risolino nervoso, quando sentivamo il fetore di una flatulenza muta, e tappandoci il naso segnalavamo il colpevole, che era quasi sempre lo stesso, e quando non lo era identificavamo il responsabile del nuovo miasma esplodendo in una baldoria delirante, prima di svignarcela di corsa a gattoni. Altre volte ci divertivamo a fare qualche sciocchezza, gesti impossibili, oppure indicavamo i calzini bucati di quei piedi enormi che si toglievano sempre le scarpe, sfioravamo le sottovesti di qualche zia o guardavamo assorti il gran pacco dei pantaloni del trombettista. Soprattutto, però, ci affascinava ascoltare i grandi. Volevamo sapere della menciñeira nana, quella strega di mezzo metro che un giorno apparve da chissà dove e passò un’intera notte di tutti i Santi a ululare e mormorare scongiuri sulla fossa comune dove si diceva fosse sotterrata la piccola Leonor. La chiamavano sempre così, “La piccola Leonor”.