Se tutti diventassero re
PROLOGO
Il fragore di un tuono lontano lo colpì al cuore, si sentì trascinare verso il fondo e tutte le voci del mondo gli si riversarono addosso. C’era il trillare argentino di una risata, poi il rintocco sordo di una campana che aveva gridato nella notte un allarme tardivo. Il suo volto era teso, teneva lo sguardo posato sulle mani grinzose e piene di vene che gli carezzavano la pelle, sinuose come sirene. Una pelle del colore di una pergamena ammuffita che raccontava per intero la storia dei suoi anni. Era tardo pomeriggio e la luce obliqua avvolgeva il viale allungando la sua ombra sulle aiuole, il marmo della panchina però era ancora caldo, serbando memoria del tepore del sole che tanto a lungo lo aveva avvolto. Non si udiva nulla, tutto intorno era silenzio. Provò ad ascoltare meglio dopo il sonoro crepitare di un attimo prima. Sentiva di essere solo. Ai suoi piedi, fasciati in morbide pantofole di feltro, il cane si era sdraiato, malinconico. Tornando indietro con la mente, cercava di ricordare quando la cosa più preziosa della sua vita gli era stata sottratta. Poi sentì un picchiettare sommesso sui vetri che lo fece voltare con subitaneo sollievo verso la finestra, vide un volto che gli era caro, cercò a tentoni il muso umido del grande Molosso bianco che gli si strusciava ansioso sulle gambe per rassicurare anche lui. Sapeva che alla fine sarebbe stato un altro dolce legame di dolore da troncare, così senza parole.
Nella sua vita molto gli era stato concesso e c’erano state cose che nessuno avrebbe potuto portargli via. Si guardò di nuovo i piedi e osservò senza stupore che erano avvolti in rozzi calzari. Al posto della veste da camera, con le nappe di velluto, indossava un chitone leggero e trasparente, di un sontuoso color porpora. Allora sentì che niente era perduto. Un’ondata di gioia incontenibile gli sfuggì dal cuore e lo pervase come un brivido da capo a piedi. Il suono della campana dai grevi rintocchi si trasformò nello sciabordio del mare, mentre attorno a lui cadevano le prime gocce di pioggia. Si accasciò scivolando da un lato, il capo reclinato su una spalla, il libro gli sfuggì di mano planando al suolo con le pagine aperte scompigliate dal vento. Il grande cane bianco lo annusò senza interesse, poi si strinse ancora di più ai piedi dell’uomo, cacciò la testa sotto la panchina di marmo e cominciò a uggiolare piano. L’oracolo aveva detto il vero, la pioggia adesso cadeva dappertutto su Taras, in ogni angolo del Peripatos deserto, sugli spogli cespugli, sulle pietre contorte, sulle punte dei roveti, sotto la marea montante, dentro il mare nero, sulle aguzze valve porporigene dei murici. Dal libro ancora aperto, un poeta antico continuava a declamare i suoi versi, incurante del gelo calato nel giardino, senza badare ai passi affrettati di una donna che accorreva, senza curarsi delle grida, dei gemiti e dei pianti, dello stridere delle sirene, né delle ruote dell’ambulanza che graffiavano imperiose la ghiaia del viale.