“Qof” su Zona di disagio
TRE LETTERE PER UN’IDENTITÀ
La fatica del vivere sfocia a volte in un’enfasi dirompente che esaspera il corpo, spingendolo a fatiche anche maggiori affinché la mente si occupi d’altro e non vortichi su se stessa come un mulinello di foglie morte; altre volte defluisce in un’apatia dello spirito che si limita ad assecondare il moto dell’universo, assorbendo le forme, i colori e la vita come i buchi neri fanno con la luce. Altre volte ancora si traduce in uno sguardo avido di segnali che possano sgombrare il campo dai residui di dolore e restituire alla mente l’intrepida forza per tornare a rastrellare ragioni sufficienti per non anticipare la morte. È questo il caso del protagonista di QOF (Arkadia ed.), nuovo romanzo di Alessandro Bastasi. Come un’ombra che striscia lungo pareti di un’esistenza spinta a forza dentro un passaggio obbligato, tra abbandoni, memorie sghembe e briciole di vita, l’uomo che resterà senza nome fino all’ultimo rigo dell’ultima pagina si lascia appiattire dalla violenza di giorni che sbocconcellano la sua anima. La scrittura di Bastasi ha la densità di un grumo di felicità rigurgitato senza troppi complimenti da una bocca, quella del protagonista, che non sa più dare il nome alle cose. Le parole dell’autore, invece, scorrono con rapidità impressionante, saturando le pagine che incalzano il vuoto e rincorrono il silenzio e sgomitano affinché l’attenzione del lettore sia sempre vigile, pronta a cogliere la più piccola sfumatura di una volontà che, nonostante quella fatica quotidiana del vivere, è recalcitrante a farsi sottomettere dall’onda definitiva. Siamo risucchiati dentro una coscienza che fa incetta di ogni possibile traccia capace di ricomporre un evento del passato che pare essersi smembrato in minuscole particelle di materia. A dispetto dell’apatia sociale, il protagonista, risvegliato dal sonnambulismo spirituale da una telefonata misteriosa, lancia i dadi sul tavolo di un gioco che fino a quel momento l’ha visto partecipare senza trasporto. Nulla sarà vano finché lo sguardo, che finalmente abbandonerà la visuale di angoli esterni per rivolgersi ai vasti orizzonti interni, non troverà ciò che stava cercando da tempo. Nessuna torpore, pur causato da dinamiche esistenziali infelici, sarà sufficiente per opporsi ai richiami del passato che sono anche incentivi per il presente. Leggiamo: “È avvenuto così gradatamente che non riesco a ricordare perché l’abbia fatto, cosa mi abbia spinto a rinunciare a una vita di successi, mi è capitato quello che accade alla rana del celebre apologo di Chomsky, lentamente, senza che me ne accorgessi, è venuta meno l’eccitazione che mi procurava accumulare denaro a scapito di uno Stato tanto idiota da non essere in grado di difendersi, come e perché sia accaduto, ripeto, non lo so, so solo che giorno dopo giorno sono diventato preda di un’accidia che non avevo mai sperimentato, un lasciarmi andare, un cullarmi nel torpore dell’inerzia, nella fatalistica remissività raccontata da Gončarov”. Il malessere è profondo, radicato nello sconcerto di una coscienza che non fa altro se non raccogliere frammenti di un’identità impossibile da ricomporre. E quando il mondo, nel corso della trama, diventa in bianco e nero, allora ogni occasione potrebbe essere buona per agguantare il filo d’erba attaccato alla roccia e tirarsi su, mentre alle spalle i boati della burrasca incitano alla caduta. Alessandro Bastasi guida con estrema destrezza una coppia di cavalli imbizzarriti che corre a tutta velocità verso il precipizio. Lo scrittore lambisce il bordo del baratro, sfiora con il piede l’orlo che facilmente si sbriciola, ci fa udire i rimbalzi dei sassolini che cadono finché il suono si perde, ci fa annusare l’odore dello zolfo che riempie gli inferi verso cui tende il collo e nel frattempo annuncia con maestria risvolti di una ricerca che non ha esiti scontati. In questo modo lo sviluppo della storia si apre a ventaglio come una raffica di vento che però non diminuisce la sua brutalità neppure quando, incontrando ostacoli, si dirama in più correnti d’aria. Il mistero non si dilegua con troppa facilità, il passato resiste ai colpi di piccone che il protagonista continuerà a infliggergli. Ci vorrà tempo e coraggio e consapevolezza per determinare i passaggi da un evento all’altro, da una ragione all’altra, da un effetto all’altro. Lo scrittore si muove con agilità e sicurezza su un terreno molto più che accidentato per il protagonista, ma conoscere in anticipo il finale non rende meno aspra la lotta contro le singole perversioni di una mente che si rifiuta a lungo di riconoscersi nello specchio in cui ad un certo punto è costretta a riflettersi. Leggiamo: “Deve essere così, la morte. Scivolare nel sonno, la medesima sensazione di quando ti inducono l’anestesia prima di un’operazione. Un sonno privo di sogni, anche l’inconscio finalmente tace. L’assenza. Nessuna tempesta onirica, nessuna identità. Non esisti. Il tuo io non esiste più”. Solo una coscienza maturata attraverso il dolore e l’accettazione della sua realtà può raggiungere simili certezze. Quando si prende atto che un certo io non esiste più, scatta l’urgenza di comprendere quale forma dovrà assumere il nuovo io. Ed è verso questa nuova ricerca che Alessandro Bastasi incoraggia i lettori, chiudendo il romanzo con un finale che non ha nulla di risolutivo poiché è proprio dopo l’ultimo punto fermo che inizia la storia.
Luciana De Palma
Il link alla recensione su Zona di disagio: https://tinyurl.com/2yuwwfth