Qof
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Volevo una birra chiara, me l’hanno portata scura. Non protesto, la cameriera è carina, al di là dell’atteggiamento ombroso, a tratti scostante. Bruna, occhi neri, unico neo un naso troppo importante, preferisco quelli piccoli, alla francese. Seduto a un tavolino nel dehors, mi infilo in bocca una manata di patatine fritte. Una folata di vento spazza via le foglie che l’autunno fa cadere dagli alberi del viale. Dalle automobili, ferme a causa di un incidente trecento metri avanti, gas di scarico e clacson provocano le reazioni stizzite dei passanti. Io sorseggio la mia birra seguendo con lo sguardo la silhouette della cameriera bruna, i lunghi capelli scomposti dal vento, si muove a scatti, il vassoio con gli aperitivi e gli stuzzichini in equilibrio precario sulla mano destra sollevata sopra la spalla. Chissà perché non usa entrambe le mani, c’è pericolo che il vassoio precipiti sul marciapiede, ed è quello che a un tratto succede, due bicchieri rotolano via, rovesciando liquido, ghiaccio e cannucce sulla carreggiata, pizzette calpestate dall’anfibio di un ragazzo tatuato dal cranio rasato, che solleva il piede, osserva la suola, se ne esce con una bestemmia. «Fanculo, stronza!», esclama. Il rossore trasforma in fuoco il pallore del viso della ragazza, la quale sbatte il vassoio su un tavolino accanto al mio, lancia un’occhiata feroce verso di me, digrigna i denti e scompare all’interno del locale. Ce l’ha con me, anche se ne ignoro la ragione. Rimango immobile, gli occhi fissi sulla porta a vetri. La ragazza non esce. La immagino discutere con il titolare, o con il gestore. L’ho visto prima, un tizio grosso, le guance cadenti velate di barba corta grigia. Il vento si gonfia, il traffico riprende, il fruscio delle zip delle felpe, i cappucci sulla testa per difendersi dalle raffiche. Io me ne strafotto. Bevo la mia birra e mi avvio verso casa.