Paola Musa con Go Max Go su L’unità
L’Unità
4 aprile 2016
Nel libro “Go max Go” di Paola Musa la parabola umana e artistica del geniale sassofonista
“È un libro ma suona come un disco. Dentro c’è tanta musica, forse tutta la musica del mondo: quella che riusciva a raccontare Massimo Urbani con il suo sassofono contralto. Musica come urgenza, come velocità, come necessità di esprimersi in fretta forse con la segreta consapevolezza che il tempo per lui sarebbe stato troppo breve. Una parabola consumata in 36 anni appena, lutto mai metabolizzato dal mondo del jazz. Un miliardo di note soffiate, urlate assieme a un’ansia di vita. Questo era Massimo Urbani: chi lo ha visto suonare, anche quando era troppo fatto per stare in piedi, ha il ricordo di un artista famelico, onnivoro, curioso fino al parossismo. Un tecnico formidabile e soprattutto uno sperimentatore nato un passo avanti, sempre troppo avanti. Il libro scritto da Paola Musa per Arkadia si intitola Go Max Go ed è un romanzo musicale in cui la storia di Urbani assume, appunto, i connotati di un romanzo, nonostante la sequenza degli episodi sia narrata con precisione. L’autrice, poetessa, che collabora come paroliera per Nicky Nicolai e Stefano Di Battista ed è l’autrice di “Condominio occidentale” (trasformato in un tv movie per la Rai), parte dall’inizio. Quindi gli esordi del bambino prodigio con il clarinetto nella banda di quartiere a soli 11 anni. Poi la passione esplosiva per il sax contralto, lo stesso strumento di Charlie Parker, al quale Urbani verrà spesso e volentieri paragonato anche per la fine arrivata con una overdose in un giorno di giugno del 1993. Scrive l’autrice: “È il ritratto dell’artista che brucia le tappe e dissipa le proprie energie sotto la suggestione di una possessione fisica e spirituale, intensa e totemica, dove il medium della musica non è soltanto percezione ma oscuro presentimento della propria breve apparizione nel mondo.” E quindi in queste 140 pagine pubblicate da una piccola casa editrice sarda (terra dove il jazz ha trovato asilo da tempo) sono raccontati tutti gli incontri importanti, le vicissitudini, i capitoli principali della storia. Le frequentazioni con Enrico Rava che lo porterà in America, lo stupore di Mario Schiano per quel ragazzino di borgata che aveva il cuore in tumulto come Albert Ayler, la collaborazione con gli Area di Demetrio Stratos. E poi tutto il resto: il magnetismo che il “pischello” spirgionava, i rapporti con la famiglia e con il fratello, sassofonista anche lui, la discografia a fasi alterne e soprattutto l’ultimo periodo, quello più drammatico e complesso quando anche i musicisti che lo amavano iniziarono a prenderne le distanze. Nei ringraziamenti conclusivi, l’autrice annota: “Ho conosciuto Massimo Urbani nel 1993 (…) Il vago ricordo che ho di lui è nell’atto di suonare un assolo: mi colpì il suo essere totalmente immerso nella sua performance, senza occhiate d’intesa con gli altri musicisti o ammiccamenti con il pubblico (…) quasi suonasse per sé soltanto, e la musica fosse semplicemente espressione di un monologo interiore”. Il libro è scorrevole, amorevole e rispettoso. Manca soltanto tutta la ferocia di una città come Roma, l’humus di un quartiere come Primavalle, ex periferia crudele di una città che non perdona il genio e il talento.
(Daniela Amenta)