Oltre il mandorleto
PROLOGO
Mi chiamo Sandro Fois.
Il primo ricordo che ho di tutta questa storia risale alla sera del 25
giugno 1967.
Si trasmetteva un programma televisivo che per la prima volta univa il mondo, o almeno così si diceva in giro.
Non avevo ancora sei anni, e nemmeno la tv, come tutti.
Ci eravamo appena trasferiti con mio padre, fresco vedovo, da una palazzina alla periferia della città, in quel nuovo quartiere dai palazzi alti come torri.
In realtà, non capivo perché l’avessimo fatto. Questo nuovo quartiere non era tanto diverso dall’altro, a parte le torri.
Anche nel vecchio c’erano un gruppo di case popolari, una grande piazza con al centro una chiesa, le scuole, un uliveto… un mandorleto.
Mi portavo dietro pochi ricordi – dell’asilo, soprattutto –, tanti volti di suore, in particolare di due, suor Luigia e suor Enrichetta, la prima solare, la seconda robusta, svogliata, e poco altro.
Di fronte a casa apriva un nuovo bar, ma la festa per l’inaugurazione era passata subito in secondo piano… Alla tv stava per cominciare la doppia telecronaca dall’Italia per la Mondovisione.
Sul grande schermo del locale comparve una breve esibizione di due cavalieri, due fratelli, atleti olimpionici. «Molto bravi e famosi», mi garantì mio padre. Subito dopo apparvero le strade antiche di un paese dove un regista, altrettanto famoso, girava un film su una strana storia d’amore, dove i due amanti alla fine si suicidano. Attorno a me la gente sembrava in effetti annoiarsi.
Feci in tempo a riconoscere altri cinque ragazzi, prima che i Beatles, durante il collegamento in diretta da Londra, intonassero per la prima volta All You Need Is Love, composta per l’occasione, seppi più tardi.
Quattro di quei ragazzi sicuramente sarebbero stati i miei compagni di scuola di lì a poche settimane. Il quinto sembrava più grande. Era grasso, insofferente, e non vedeva l’ora di uscire.
Sembrava fuori posto.
“Chissà se lo rivedrò”, pensai, ma dentro di me qualcosa mi diceva che me ne sarei dovuto tenere a ogni costo alla larga.
In realtà, il motivo per cui c’eravamo trasferiti in quel nuovo quartiere lo compresi subito dopo che iniziarono le scuole elementari.
Mio padre, appena promosso maresciallo, era stato trasferito alla Questura di Cagliari e assegnato al controllo di quel labirinto di alveari abitativi che destavano, nei vertici della Polizia cittadina, non poche preoccupazioni. Quando mi accompagnò, il primo giorno di scuola, in divisa, gli altri genitori facevano a gara nel mostrare un rispetto che andava oltre il normale codice formale di una piccola comunità.
Mio padre era l’autorità, per molti versi temuta, di quel quartiere, e io ero il figlio da trattare bene, far sentire sempre benvoluto, coccolato quasi.
In breve, forse anche perché l’unico senza fratelli, venni invitato a casa di tutti i vicini e messo a proprio agio dalle mamme e dalle sorelle dei miei amici.
Le case in cui trascorrevo la maggior parte del tempo erano quelle di Andrea e di Stefano, e forse fu da allora che presi l’abitudine di osservare tutto ciò che mi accadeva attorno con occhi che penetravano anche i sentimenti più profondi dei miei migliori amici.
A casa di Stefano io e mio padre ci andavamo praticamente tutti i giorni, e non passò molto che anch’io capii come tra la madre di Stefano, separata da una vita, e mio padre, rimasto vedovo da poco, fosse nata una storia vera e propria.
Quando mio padre ci mandava a comprare dolci e gelati al bar di fronte, era fin troppo chiaro sul fatto che non saremmo dovuti tornare prima di un’ora, dopo aver mangiato i nostri gelati lì fuori, giocato nel Mandorleto, e comprato i dolci nella pasticceria del CEP, la più lontana, quella che, secondo lui, aveva le paste più buone della città.
Anche quando io, Stefano e la sorella crescemmo, i nostri due genitori continuarono a vedersi, discretamente, come una coppia matura, ma che per ovvi motivi non doveva dare più di tanto nell’occhio.
Noi ci adeguammo facilmente, anche perché mangiare dolci e gelati ogni sera era veramente un gran lusso, e anche se al ritorno trovavamo i nostri genitori stanchi e sudati, e con noi sempre di cattivo umore, quasi li avessimo interrotti sul più bello, ci stava bene e tornavamo a casa soddisfatti.
Se con Stefano condividevamo i momenti più eccitanti e proibiti, con Andrea, in particolare, era nato un legame più forte, che andava oltre l’abitudine di trascorrere tanto tempo assieme… Da subito era sorta un’intesa che ci permetteva di capire l’altro senza la necessità d’aggiungere parole superflue.
Con lui e la sua famiglia ci si vedeva soprattutto la domenica.
Ogni volta io, Andrea e il fratellino osservavamo sempre in una sorta di stato di rapimento estatico gli accurati preparativi del pranzo che il padre e la madre di Andrea condividevano profondamente.
Elton John cantava Skyline Pigeon, e noi aspettavamo trepidanti il momento in cui arrivavano a tavola i maccheroni fumanti e le alici croccanti.
A scuola gli anni trascorrevano sereni e la maestra, Ida Siddi, appariva a noi come una seconda mamma, più permissiva e meno distaccata delle nostre vere madri.
Erano anni in cui si giocava, soprattutto, e anche la presenza di Mirko, ingombrante e a volte vagamente minacciosa, non sembrava ancora costituire un vero pericolo.