Nuddadifà su “La Nuova Sardegna”
La Nuova Sardegna
2 gennaio 2016
La morte di Nuddadifà. Discesa negli inferi della vecchia Sassari
Il nuovo romanzo di Nello Rubattu, un giallo che parte dall’omicidio di un atipico tombeur de femmes di provincia
Appena pubblicato dalla casa editrice Arkadia, “Nuddadifà” è un romanzo, giallo tendente al nero, del sassarese Nello Rubattu. sassarese è anche l’ambientazione della vicenda narrata, che prende le mosse dal ritrovamento in pineta del cadavere di un personaggio che, a furia di dire “ No v’è nudda di fa” a proposito della propria passione per le donne, si è meritato il nomignolo del titolo. Si tratta di un inspiegabile assassinio. A Nuddadifà, che non faceva male a una mosca, è stata tagliata la gola, e le sue donne, che da lui, senza impegno e senza reciproche gelosie, ricavavano solo gentilezze e attenzioni amorose, si uniscono in una sorta di cooperativa e chiedono di indagare sull’omicidio a un investigatore privato, un “cavaliere” ex-poliziotto ed ex-pugile. Anche perché la polizia è inconcludente e a nessuno che conti sembra importare di risolvere il caso. Per soldi e, soprattutto, per attrazione verso le amichette di Nuddadifà, improvvisamente “invedovate”, il “cavaliere” accetta. Comincia le sue indagini a partire dalla pineta, teatro di serali amori prezzolati, gestiti e controllati da Zezè, di mestiere “magnino”. Magnino e non magnaccia, ingentilito così anche linguisticamente. Zezè è un personaggio provvisto di una sua etica tutta privata, che tratta bene le donnine sue dipendenti, tra le quali non mancano nigeriane o ucraine. Ha una sorta di debito di vecchia data con il ‘cavaliere’, e perciò accetta di aiutarlo, in un’indagine che fa crescere la confidenza e l’amicizia tra i due, ma che si fa sempre più pericolosa. Né mancano i classici ingredienti del pestaggio di chi ficca il naso dove non dovrebbe, delle paure di chi potrebbe parlare ma è terrorizzato, dei vizietti privati di personaggi in vista, e così via.
Ironia dissacrante. Non si può qui certo andare avanti nel narrare la vicenda, pena togliere il gusto di leggerla ai tanti lettori che il libro merita. Basti dire che essa arriva a toccare questioni inquietanti e quanto mai attuali nel mondo in cui viviamo, attraversato da traffici internazionali tanto lucrosi quanto illeciti, da rispetto nullo per un ambiente sempre più inquinato, da connivenze e coperture reciproche tra poteri cinicamente attenti solo all’accumulo di denaro, che fanno impallidire fino a farli sembrare difettucci da educande i piccoli traffici locali di sesso a pagamento o i piccoli ricatti esercitati verso chi, in fondo, sembra meritarseli. I “buoni” dunque, pur con tutte le loro ambiguità, sono in questo romanzo proprio il “cavaliere” e Zezè, ambedue nati nella “città vecchia”, fatta di vicoli e vindioli. Assieme a vari altri personaggi del medesimo ambiente, sono trattati dal narratore in modo da farne scoprire la profonda umanità, condita di quell’ironia dissacrante esercitata, dal basso, verso tutte le forme di potere e di ricchezza raggiunta e ostentata, che ci ha fatto tanto amare molte delle canzoni di Fabrizio De André, tra le quali, in primis, proprio “La città vecchia”.
Lingua scoppiettante. Nel romanzo di Rubattu essa coincide con il quartiere più popolare, abitato da poveracci che vivono di espedienti, di una Sassari ben riconoscibile e che, con questo suo quartiere, diventa quasi una coprotagonista del racconto. In primo piano, a partire dallo stesso titolo, è la lingua scoppiettante e colorita di cui ci si serve, in cui campeggiano il dialetto sassarese e l’italiano parlato dai sassaresi: parole ed espressioni prese ora di sana pianta dal dialetto locale, ora dall’italiano regionale (con i suoi tanti unbe’, le greffe, le gane) si addensano nelle pagine del romanzo. Inoltre, le forme locali sono mescidate ampiamente a forme gergali (come i vari nisba, pulotto, buiosa, smurfire, desunti dal gergo della malavita, dal mondo della droga e dal linguaggio giovanile) e a prestiti da altre lingue, in espressioni o frasi fatte trascritte “a orecchio”. Per esempio alla savansandir (da ça va sans dire) è la relazione che molti clienti vogliono o vorrebbero allacciare con la vedova Sias, la plaistescion (da playstation) è il regalo natalizio che Mariannina Fulghesu non fa mancare al suo primogenito, e ci sono ragazze che si fanno le mesch, si mettono la gonna strech o hanno la borsetta Ciainastail.
Alla santarrangiati. Nascono così, nella scrittura di Rubattu, parole che si presentano come “nuove” almeno nella forma grafica, straniata e straniante. Né mancano stringhe di parole o espressioni, anche italiane, che assumono una veste inedita, se non altro perché scritte senza alcuno stacco, come in twitter: alla santarrangiati sono imbiancate le case basse e umide dove vivono le povere criste che vogliono sapere chi ha ucciso Nuddadifà, lo sguardo alla mezzopiangere è quello del marito che così riesce a far fare sette figli alla sua donna, un servizio da meloricordoancora è quello che un’ucraina fa al “cavaliere”. Sono solo alcuni dei moltissimi esempi reperibili nella scrittura di Rubattu, che anche in questo romanzo, come nei precedenti, si conferma autore abilissimo nel manipolare e mescolare le tastiere composite del suo plurilinguismo, in una creatività espressiva che non ha neppure eccessive preoccupazioni di verosimiglianza. La sua è una accentuata stilizzazione della rappresentazione, anche linguistica, dell’ambiente narrato e si può dire che Rubattu ha fatto e fa per Sassari un’operazione analoga a quella che a suo tempo Sergio Atzeni ha fatto per Cagliari. Chi ha letto i suoi romanzi precedenti, da “Hanno morto a Vinnèpaitutti” a “Pierre”, può trovare anche in Nuddadifà una ratatouille linguistica, divertita e divertente, con personaggi cui non manca il gusto della battuta e un narratore che raccoglie e rilancia.
Bellezza violata. Insomma, questo romanzo ben congegnato si legge con gusto e, insieme, fa pensare, lasciando intravedere anche una notevole capacità descrittiva in chiave lirico-letteraria, specie se lo sguardo si posa su un paesaggio che merita. Si è condotti così, per contrasto, a guardare con orrore sempre maggiore a quanti, invece, attentando alla sua bellezza, inquinano l’ambiente e ne mettono a rischio la sopravvivenza. E non solo nel romanzo, ovviamente.
(Cristina Lavinio)