“Non sapevo che passavi” su Librando Magazine
“Non sapevo che passavi”, la raccolta di squinternate biografie-racconti di Stefano Domenichini
Nel libro pubblicato da Arkadia nella collana SideKar, come un abile novelliere, l’autore unisce vicende reali a eventi inventati di sana pianta tratteggiando ogni personaggio con creatività e ironia
È in libreria il nuovo libro di Stefano Domenichini pubblicato da Arkadia nella collana SideKar. “Non sapevo che passavi”, volutamente scritto così, raccoglie le vite di Bob Kaufman (poeta), Peter Norman (velocista), Giuseppe Ticozzelli (calciatore), Jarno Saarinen (motociclista), Giona (profeta), Benny Hill (comico), Lester Bangs (critico musicale), Martin Lutero (eresiarca) e tanti altri ancora. Personaggi molto noti al grande pubblico, oppure scivolati in un triste dimenticatoio. Partendo da solide basi documentarie, ognuno di loro è tratteggiato con maestria da un abile novelliere. I protagonisti di queste esilaranti biografie-racconti sono personaggi accomunati da un “simpatico” destino, finiti in pasto all’attenzione arguta dell’autore della raccolta che, con proverbiale bravura e ironia, unisce vicende reali a eventi inventati di sana pianta.
DAL LIBRO
BOB KAUFMAN
(Poeta)
La filosofia orientale ha conquistato il mondo. È come alle conferenze internazionali su qualcosa: mandano avanti i presidenti, freschi di manicure, e dietro le unghie sudicie bisticciano virgole, parametri e ripicche. Hanno mandato avanti lo Zen (e l’arte di manutenere qualunque patacca occidentale) e intanto facevano scendere da bilici silenziosi sciami di auto compatte di gusto giappo a basso costo di produzione. Hanno vinto loro. Vedi gente che va ai corsi di campana tibetana su piccole automobili sgraziate che Buddha avrebbe considerato ostacoli insormontabili verso il Nirvana. Non era così a North Beach, San Francisco, anni Cinquanta. Le auto erano monumenti rombanti e contenevano sogni, non individui. Bob Kaufman non sapeva guidare, ma era amico di Kerouack e di Neal Cassady: come non essere mai stato in un posto, ma avere due amici madrelingua. Se vincete un buono omaggio per un’increspatura dello spazio-tempo, fate un salto nella New Orleans degli anni Venti. Lì è successa una cosa senza uguali nella storia del mondo: la congiunzione carnale (e sentimentale) tra una ragazza cattolica di colore della Martinica e un tedesco ebreo ortodosso. Non potevano nascere che quattordici figli da una trama così visionaria. Uno lo chiamarono Bob, nero come la mamma. A tredici anni Bob esaurisce il desiderio d’intimità famigliare. Intravede nel mare un’oasi di tranquillità e si imbarca con la Marina Mercantile. Sopravvive a quattro naufragi e a migliaia di burrasche. È lì che, per la prima volta, si accorge di poter isolare una musica in mezzo alla tempesta. La chiama poesia, e la cosa gli piace tantissimo. Sviluppa anche una grande passione per il blues – che separa il mare dai suoni inquinati – e per il jazz – che vola verso sacche di suono nello spazio. Comincia a scagliare dalla bocca tocchi di anima cruda, mischiati a biscotti di avena. Non scriveva. Come il Cafi di Lessico famigliare pensava che i posteri non contassero nulla. «Voglio essere anonimo», diceva, «la mia ambizione è di essere dimenticato.» Ma era impossibile non notarlo. Bello come un’ombra caraibica, con la camicia bianca e il poncho colorato, la sigaretta e gli occhi lucidi di rhum e quel suo modo malinconico di dire che Barabba ci rimase male: voleva stare lui nel mezzo. Ci saranno sempre in giro bellocci da sabato sera che dicono di voler provare tutto della vita, illudendosi di poter filtrare solo le esperienze piacevoli. Bob ci faceva il burro con le trasgressioni a tempo, snobismi con le olive da circoli privati: provare tutto comprende anche dolore, malattia, onestà con se stessi e carcere. Nel ’59 fu arrestato trentanove volte, l’alcol lo devastava e, per ridurne il consumo, si faceva prescrivere le anfetamine. Finì per cedere a una bigamia bulimica che aveva come orizzonte minimo la cirrosi. Con Ginsberg, Kerouack e gli altri si intendeva a meraviglia: le sere affogate in una lacrima di eroina o negli angoli alcolici di una discussione. C’erano altri angoli che odiavano: quello televisivo della panna montata letteraria e quello giornalistico dei titoloni sexy e delle vignette erudite. North Beach è il quartiere italiano di San Francisco. Le strade sono incerottate sulle colline e i locali, visti da fuori, sembrano sottotetti inabitabili. Al Co-Existence Bagel Shop, sulla Grant Avenue, Bob improvvisava i suoi fraseggi senza tempo: «Il mio corpo, un tempo coperto dalla bellezza, è oggi un museo del tradimento. Puoi ricordare questa parte per quella carezza senza nome. Puoi ricordare quest’altra parte per quel bacio senza nome. Ma oggi riporto tutto indietro e lascerò che viva, per sempre.» Poi Lady Day o Horace Silver si mettevano a suonare e Bob si sdraiava sotto il pianoforte e lasciava che la musica lo inondasse come pioggia. Conobbe Eileen una notte di marzo. Le disse che la realtà è irrealizzabile mentre esiste e che bisogna credere ai sogni solo dopo che si sono avverati. Le disse anche che quella notte, con lei, le risate risuonavano arancioni. Dopo un mese, si sposarono e nacque Parker. Eileen cominciò a trascrivere la disgregazione continua di forme che uscivano dalla bocca turbolenta del marito. Lo fece senza sosta, ovunque; il momento migliore era quando lui beveva con il ruttino nella vasca da bagno. Poi, un giorno di novembre del ’63, Bob tacque: si chiuse in un isolamento stipato di solitudine. Durò più di dieci anni. Alla fine del voto di silenzio, fece due cose: entrò in un bar recitando una poesia (All those ship that never sailed) e andò da Eileen. La risposò sul Monte Tamalpais. Per lasciare la terra scelse la cometa sbagliata. Indossava spesso una maglietta che raffigurava la cometa di Kohoutec e ripeteva che se ne sarebbe andato al suo passaggio. Ma non fu così. Kohoutec è una cometa velleitaria e millantatrice, sempre molto al di sotto delle aspettative. Bob morì nell’86, mentre passava la cometa di Halley.
L’AUTORE
Scrittore e avvocato, Stefano Domenichini vive a Reggio Emilia. Ha pubblicato i romanzi “Acquaragia” (Perdisa Pop, 2010), con cui si è classificato secondo al “Premio Chiara” 2010, “L’otto orizzontale” (Fallone Editore, 2018), “Storia ragionata della sartoria americana nel secondo dopoguerra e altre storie” (Autori Riuniti, 2019). Ha scritto i racconti “Il Bristol nero”, “Acquaragia” e “Apertura alla Napoleone” contenuti rispettivamente nelle antologie “Amore e altre passioni” (Zona, 2005), “Lama e Trama 3” (Zona, 2006) e “In Viaggio” (Il Gattaccio Edizioni, 2017). Altri racconti sono stati pubblicati sulle riviste “Poetarum Silva”, “Sdiario” e “Crack”. Nel 2020 è uscito “Non sapevo che passavi” (Arkadia Editore), una raccolta di squinternate biografie-narrazioni in cui l’autore, come un abile novelliere, unisce vicende reali a eventi inventati di sana pianta tratteggiando ogni personaggio con creatività e ironia.
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