“Non è di maggio” su Scuola di scrittura Genius
“NON È DI MAGGIO” DI LUIGI ROMOLO CARRINO (ARKADIA/COLLANA SIDEKAR)
Il linguaggio tremola e si fa strada nell’oscurità. In fondo, appunto, è dalla parola che nasce la storia dell’uomo. Così Luigi Carrino usa tutta la potenza evocativa che conosce per raccontare una storia fatta di ferite incurabili, e tradimenti, e magia e amore, quello che vince su tutto, quello che “move il sole e l’altre stelle”, l’amore che, anche quando sembra languire, è destinato a cambiare la vita delle persone, e dei personaggi. Conosco Luigi Carrino da molti anni, ho amato visceralmente il suo Pozzoromolo, la sua voce sporca e sporcata di un linguaggio misto di italiano e napoletano, l’incanto affascinante delle parole che ho ascoltato per tutta la mia infanzia, perché è vero che non si cresce in un luogo, si cresce in una lingua, e la lingua di Carrino continua a nutrirmi, a farmi sentire l’odore feroce della luce isolana di Procida, i fiori selvatici che crescono tra le rocce a mare, la sabbia granulosa e scura come la promessa, per fortuna sospesa, del Vulcano che ci orienta il sonno e la paura. Ecco qui, la storia circolare, che inizia e finisce, come un cerchio ideale, a Procida, omaggio a Elsa Morante, l’isola a forma di delfino, dove il mare non è solo incanto e grida festose di bambini, ma forma di sopravvivenza per trovare il sostentamento, e, talvolta, morte. Lo sa Rosina, la donna curva come una parentesi, che in mare ha perso l’amato marito, e ancora ne ha nostalgia nelle carni, e i due figli. Tutti pescatori, tutti inghiottiti dalle onde. Neppure i corpi le sono stati restituiti, nonostante lei abbia chiesto furiosa e supplice al mostro blu di ridarle almeno quelli. Almeno. La storia inizia con una traversata da Napoli verso Procida della baronessina Angela Lieto, neanche 20 anni, incinta di due gemelli senza essere sposata, e nell’accorta visione familiare, è Rosina, la custode di villa Lieto durante l’inverno, a dover aiutare, come ha già fatto una volta, la ragazza ad abortire. Rosina infatti è una janara, una donna un po’ strega che sa leggere nel cuore degli uomini, e soprattutto conosce le erbe per curare malanni e procurare aborti. Però questa volta Angela non vuole abortire, è innamorata, il suo fidanzato è un contadino dagli occhi sinceri, che sta provando a migliorare la sua condizione, studiando giurisprudenza. La famiglia di lei ha messo un veto duro come quello degli Stati che rifiutano collaborazioni. Un no senza appello al quale Angela si rassegna senza darvi troppa importanza. Tutto andrebbe per il meglio se Salvo, il padre della creatura, non morisse improvvisamente di tifo, e il lutto scendesse nell’anima inquieta di Angela. Rosina non parla (se non due volte durante tutta la narrazione), ma capisce che il futuro delle creature (perché lei sa che sono due) è legato a una sorta di patto con la famiglia di Angela. I genitori di lei non devono sapere che i bambini sono due, così uno viene frettolosamente imboscato e regalato di fatto a una ricca famiglia napoletana senza figli, mentre l’altro rimane sull’isola, e la sua vita verrà nascosta ai nonni. Il bambino, Salvo, è un bambino indaco, dotato di poteri capace di fargli sentire il tempo come se non ci fossero barriere tra passato e futuro, sospeso in un ondeggiare tra adesso e domani e ieri. Perché ovunque e comunque noi siamo. Siamo la somma e la sottrazione degli eventi che abbiamo scelto o accantonato. Salvo lo sa e vive senza contraddizioni la sua eccezionalità. Angela, invece, vive un pugno di anni di calendario immersa in un tempo sospeso, senza sapere nulla di nulla, ghiacciata e compiaciuta, quasi affogata nel suo dolore e si riscuote quando Salvo, che ormai ha quasi 6 anni, le dice “Sono tuo figlio”, e lei, che pure sente un senso di mancanza, prova a dare un po’ di attenzione a quel bambino che si intende con animali e piante, la cui unica compagnia umana, oltre a quella di Rosina, è quella di Nuccio, un bambino autistico, con il quale comunica con una sorta di telepatia. L’io narrante della storia è Salvo, il bambino, e poi ragazzo, speciale, destinato a vivere in una solitudine che è una maledizione e benedizione insieme, saldato agli elementi dell’isola e al moto ondoso che può provocare spostando il vento con il pensiero. Lui sa dell’esistenza del fratello, Antonio, la cui vita verrà svelata in un servizio al tg, e che riporterà la madre a dare un nome alla nostalgia che ha sempre sentito, e che nessun essere umano è mai riuscito a colmare. Realismo magico di un mondo che non è ancora scomparso, che vive e respira nel tempo che si dilata e poi si restringe a imbuto, riducendo il nostro io più segreto al bisogno d’amore, insaziabile, che si nutre di assenza. Ma l’estate del 61 a Procida teneva la capa tosta e sembrava non volesse finire mai, anche se le ore di luce continuavano a sottrarsi dal cielo. La gravidanza di Angela era scappata via dalla primavera per correre appresso all’autunno senza manco avvisare le pesche gialle nel giardino che se ne fottevano del tempo loro già passato e continuavano a stare appese secche secche come succhiate della vita dall’interno. Ottobre squagliava la sua umidità sulle lucertole azzurre e nelle pieghe delle magliette lacere a mezze maniche dei pescatori, tra le dita dei piedi ancora scalzi di ragazzi neri neri che si improvvisavano facchini al porto e che per dieci lire si accollavano le valigie grosse degli sbarcati. Negli ultimi giorni di ottobre Rosina osservava Angela morta viva e a vederla seduta sulla pietra della vita, che faceva così e così con la testa, un po’ di qua e un po’ di là, il cuore le addiventava piccolo quanto il frutto di un biancospino. La mammana sperava in un tempo nascosto negli anni a venire. Ma è sulla bocca della mancanza più grande che diamo baci all’assenza più cara e la janara sapeva, lo aveva sempre saputo, che è dall’amore che non si guarisce mai e così sarebbe stato per Angela. Così era stato anche per lei.
Marilena Votta
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