“Non è di maggio” su Obiettivo Saviano
“NON È Dl MAGGIO” di Luigi Carrino
LO SPAZIO, I PERSONAGGI, IL TEMPO – Luigi Romolo Carrino, che attualmente vive a Palma Campania, è una delle più autorevoli voci della narrativa italiana del Duemila. A lui si devono straordinari romanzi quali Pozzoromolo, Esercizi sulla madre e La buona legge di Mariasole, storie di forte impatto emotivo, scritte in una lingua di raffinata qualità letteraria. Il suo ultimo lavoro è Non è di maggio. La storia è ambientata nell’isola di Procida in cui, come lettori, siamo immediatamente immersi attraverso le sottili percezioni sensoriali che vengono trasmesse dagli elementi del paesaggio naturale e umano: le ginestre impazzite di giallo, l’odore di resina del lentisco, lo stordimento di luce dei vigneti dell’aglianico, dei corbezzoli e dei limoni, un profumo nell’aria che sa di incenso, il frusciare di ali e gli stormi che sfilano nel cielo, la litania di donne. il lamento di una ragazza, il bisbiglio di una madre, la sera che cade improvvisa e se ne va a fare notte e musica con il mare. Siamo in uno spazio “altro”, fuori dal tempo, in cui la vita asseconda il ritmo della natura. Inizia il nostro percorso nel testo. Entrano in campo i vari personaggi a svolgere il filo della trama: la janara Rosina, Angela Lieto, figlia dei baroni Serafino e Anna, ostacolata dal padre nell’amore per Salvo, un giovane figlio di contadini, che muore di tifo, lasciandola incinta di due gemelli: il primo tenuto nascosto e subito dato in adozione, il secondo, Salvo come il padre, il protagonista della vicenda, Nuccio, il compagno autistico con cui condivide uno spazio parallelo di comunicazione e solidarietà. Salvo: un nome che ha in sé anche la funzione per cui è venuto al mondo, cercare di cambiarlo in meglio diffondendo il sentimento e la pratica dell’amore; in questo favorito dai suoi poteri di entrare nella mente degli altri per leggerne i pensieri, muovere gli oggetti, gestire la gravità, curvare il tempo, finanche “sospendere per pochi attimi il suo trascorrere e soltanto nella percezione di chi sta intorno”. La sua natura ha a che fare con il cielo, con il parto di una stella, con il profumo delle galassie, è scivolato sulla terra da un buco nero, al quale prima o poi è destinato a tornare. Ma non mi soffermo a raccontare la trama, che a un lettore superficiale potrebbe apparire come una classica storia dell’amore impossibile tra due persone appartenenti a classi sociali diverse, fatta di intrighi, equivoci, tradimenti, colpi di scena, finale sorprendente. La casa/patria dello scrittore è la lingua che rimane la misura privilegiata per un giudizio “consapevole”. La lettura scorre con fluidità, anche se la continuità lineare viene integrata con sequenze del passato che riempiono alcuni vuoti narrativi. Ma non si tratta del classico flash back con cui si torna indietro per riportare alla luce elementi che chiariscano qualche passaggio in ombra del racconto. Si legga in tal senso questo pensiero di Salvo: “Il mestiere del tempo è passare, ma non per me. È stato come restare sdraiati in un buco nero e non in un letto. Ciò che per gli altri è stato trentadue anni di Vita, per me é stato solo un rimbalzo, un attimo dove spazio e tempo sono diventati una cosa”. E quest’altro che è l’incipit della sequenza conclusiva della storia: “Forse una ragazza, con i capelli ricci e biondi arriverà sull’isola di Procida quarantasette anni fa. Forse ne arrivò un’altra fra centinaia di anni”. Nel primo il tempo è sospeso; nel secondo il passato e il futuro si scambiano i tempi prendendo uno il posto dell’altro. Un tempo, questo della storia di Non è di maggio, particolare, che va avanti ma che si ferma, interrompe i suoi passi ma anche la sua direzione lineare per curvare o tornare indietro, che è tempo cronologico ma anche interiore, fatto di momenti non distinti l’uno dall’altro ma che si compenetrano e si sommano tra di loro alla maniera di un gomitolo di filo che si addipana e muta e cresce su se stesso. Un tempo che nel suo fluire si dilata o si riduce, in cui le esperienze del passato non sono mai trascorse ma si sono sedimentate dentro per riemergere e per continuare a influire sulle scelte e sui comportamenti dei personaggi. Un tempo in cui non è possibile distinguere con chiarezza ciò che è stato da ciò che è, ciò che è o è stato da ciò che viene immaginato: e cosi il futuro può essere già passato e il passato essere al di là da venire. La lingua – La lingua, scavata, elaborata, sapiente è quella che fa la qualità della scrittura letteraria di questo romanzo. Leggiamo questa sequenza in cui Anna è seduta accanto al letto del marito morente:
(…) suo marito sé aggialliato come la buccia di una nespola. (…)
Anna (…) adesso che Serafino sta schiattando potrà finalmente vedere Angela (…). Anna si vergogna del suo stesso pensiero.
“Come ti senti?”, chiede a suo marito.
Finalmente potrà mettersi una gonna corta, persino una minigonna. (…) Ma chi cazzo se le mette più ‘ste gonne lunghe? (…)
“Stai un po’ meglio?”, chiede ancora Anna (…) “Vuoi bere?”, domanda ancora.
Carrino attua qui un vero e proprio sdoppiamento tra un io autentico che esprime sentimenti reali manifestandoli solo come voce di dentro senza emettere suoni ed un io dissimulatore che ipocritamente si rivolge all’altro con parole di attenzione e di affetto non sentite. E non a caso il primo io pensa in dialetto, il secondo parla in italiano. Un dialetto duttile che svolge varie funzioni. Può essere una formula “magica”, pronunciata nella testa della janara Rosina, che accompagna una cura naturale per guarire e piaghe ulcerose del corpo di una donna malata: “Sorella Luna, come tu arapri ‘e ciure ‘a notte accussi tu Fratello Sole, m chiudi e izeppi ‘e ferite juomo”. Oppure una espressione che dà maggiore forza o sonorità a una immagine, fin quasi a riprodurre i suoni di un’azione o di un movimento: Il cavallo… ammolla ‘na vrangata di feci sul basolato; mangiava un po’ di pane asciutto sciriandoci sopra un pomodoro; i panni nostri sono inzivati dall’olio. Se proviamo a sostituire le parole dialettali con le corrispondenti italiane, viene meno l’espressività e soprattutto la fonematicità, cioè la caratteristica dei suoni specifici di una lingua nei loro rapporti funzionali e la oro capacità di generare colore, ritmo sentimenti, moduli, cadenze particolari. E anche quando il dialetto si riduce, lo scrittore nel suo discorso ne utilizza sempre le modalità morfologiche e sintattiche tipiche della lingua napoletana. Ad esempio nelle similitudini, spesso ricorrenti, introdotte da come, in cui il secondo termine di paragone è sempre costituito da un “oggetto” familiare, quotidiano, che rende l’immagine immediatamente comprensibile perché tratta dal mondo in cui agiscono i personaggi: Suo marito si é aggialliato come la buccia di una nespola; capelli neri come la pece e lucenti come una susina di luglio. Oppure la ripetizione di un avverbio o di un aggettivo per indicare una tensione dell’azione, come: Scendi mò mò o nella descrizione fisica di Rosina: Secca secca come un’alice. Alta alta, curva curva.
DOMANDE ALLA FINE DELLA LETTURA – Il romanzo ha una conclusione aperta. Molto spazio viene lasciato all’immaginazione del lettore, che cerca una risposta alle domande che il libro pone. Ma che genere di libro ho letto? Forse una favola ambientata in un’isola che non c’è, creata dall’immaginazione dello scrittore? Forse una parabola, in cui entra un Salv(at)o(re) a diffondere un messaggio di amore a tutti gli uomini? O l’eroe è solo un fantasma di qualcosa che in natura non è dato esperire, e che tuttavia rimane i più probante fondamento di una flebile e disillusa speranza?
Prof. Pasquale Gerardo Santella