“Non è di maggio” su Il Pappagallo
LA STORIA. Pubblicata da Arkadia Editore, l’opera è stata proposta al Premio Strega 2021
NON È DI MAGGIO, di Luigi Romolo Carrino
Luigi Romolo Carrino, scrittore che vive nella nostra città, è uno dei maggiori in Italia di questo primo ventennio del nuovo millennio. Il nostro giornale ha recensito, con l’attenzione che meritavano, tutti i suoi romanzi, in particolare Pozzoromolo, Esercizi sulla madre e La vendetta di Mariasole. La sua nuova storia, Non è di maggio (ed. Arkadia), è ambientata nell’isola di Procida, dove incontriamo vari personaggi: la janara Rosina, Angela Lieto, figlia dei baroni Serafino e Anna, ostacolata dal padre nell’amore per Salvo, un giovane figlio di contadini, che muore di tifo, lasciandola incinta di due gemelli: il primo tenuto nascosto e subito dato in adozione, il secondo, Salvo come il padre, il protagonista della vicenda, Nuccio, il compagno autistico con cui condivide uno spazio parallelo di comunicazione e solidarietà.
La lingua
Non mi soffermo sulla trama, ma specificamente sulla lingua, che è il “segno” della qualità della scrittura letteraria, che si esprime non nel “cosa” si dice ma nel “come” si dice. E qua voglio dar conto proprio della raffinatezza della lingua del testo attraverso alcuni esempi che mettono in evidenza il lavoro di scavo e ricerca dell’autore.
Leggiamo questa sequenza in cui Anna è seduta accanto al letto del marito morente:
(…) suo marito sé aggialliato come la buccia di una nespola. (…)
Anna (…) adesso che Serafino sta schiattando potrà finalmente vedere Angela. (…)
“Come ti senti?”, chiede a suo marito?
Finalmente potrà mettersi una gonna corta, persino una minigonna (…). Ma chi cazzo se le mette più ‘ste gonne lunghe? (…)
“Stai un po’ meglio?”, chiede ancora Anna (…) “Vuoi bere?”, domanda ancora?
Carrino riprendendo una modalità di comunicazione linguistica che gli è propria, attua qui un vero e proprio sdoppiamento tra un io autentico che esprime sentimenti reali manifestandoli solo come voce di dentro senza emettere suoni ed un io dissimulatore che ipocritamente si rivolge all’altro con parole di attenzione e di affetto non sentite. E non a caso il primo io pensa in dialetto, il secondo parla in italiano. Ecco il punto: sono frequenti i termini e le espressioni dialettali che ricorrono nel testo. Quale funzione hanno? Una l’abbiamo appena rilevata. Vediamone qualche altro esempio scorrendo le pagine. Dialettale può essere una formula “magica”, pronunciata nella testa della janara Rosina, che sta praticando una cura naturale per far scendere il latte a una puerpera: Cala latte dint’ ‘a ‘na secchia, cala latte dint’ ‘a ‘nu piatto. Scinne latte, din’ ‘a ‘ste zizze. Scinne latte dint’ ‘a la vocca. (…). Oppure una espressione che dà maggiore forza o sonorità ad una immagine: Il cavallo… ammolla ‘na vrangata di feci sul basolato (…) Il mare è malato e ti ammisca le malattie (…) Mangiava un po’ di pane asciutto sciriandoci sopra un pomodoro (…) i panni nostri sono inzivati dall’olio. Se proviamo a sostituire le parole dialettali con le corrispondenti italiane, viene meno l’espressività e soprattutto la fonematicità, cioè la capacità dei suoni specifici di una lingua di generare colore, ritmo sentimenti, moduli, cadenze particolari. Ma anche quando le parole dialettali si riducono, l’andamento discorsivo non si modifica, tanto più che lo scrittore utilizza modalità morfologiche e sintattiche tipiche della lingua napoletana. Ad esempio le similitudini, spesso ricorrenti, introdotte da come, in cui il secondo termine di paragone è sempre costituito da un “oggetto” familiare, quotidiano, che rende l’immagine immediatamente comprensibile: Suo marito si è aggialliato come la buccia di una nespola (…) Capelli neri come la pece e lucenti come una susina di luglio. Oppure la ripetizione di un sostantivo o un avverbio per indicare una qualità superlativa, come in due descrizioni fisiche di Rosina: Secca secca come un’alice (…) Alta alta, curva curva.
Pasquale Gerardo Santella