Nessuno sotto il letto
I
Erano le ventidue esatte del 7 novembre e Arnaldo Trombetta aveva sollevato lo sguardo sull’orologio a pendolo ereditato dal nonno. Per qualche istante era rimasto a fissarlo, perplesso, in attesa del consueto rintocco, confrontandolo con l’orologio da polso.
“Strano”, aveva pensato. Non aveva battuto l’ora. E, per quanto ricordasse, non era mai accaduto prima.
Si era quindi sollevato, stizzito, dalla logora poltrona di velluto e aveva avvicinato il viso alla parete su cui stava affisso per guardare meglio e comprendere che cosa non andasse. Si trattava ovviamente solo di un gesto compulsivo, di una messinscena, giacché non sapeva un bel nulla dei suoi meccanismi e a ogni modo non avrebbe mai osato aprirlo per controllare il motivo del malfunzionamento. Si era limitato soltanto ad accarezzare i bordi dell’oggetto come per fargli comprendere che aveva capito che era necessario quanto prima un intervento.
Per confermare le sue intenzioni si era poco dopo affrettato, allontanandosi di qualche passo dal pendolo, a pronunciare ad alta voce un nuovo promemoria per l’indomani – «Chiamare il signor Arzulli, che di orologi se ne intende» – perché era in tal modo che organizzava la sua vita, propositi semplici e chiari come annotazioni in grado di racchiudere azioni possibili da praticare, senza troppi fronzoli e dalle umili pretese.
Se, per esempio, non ci fosse stato un signor Arzulli, nel paese, che s’intendeva di orologi, un’ipotesi tanto vaga quanto senza senso, di fare aggiustare l’orologio a pendolo da chissà chi o chissà come o chissà quando, non sarebbe mai stata espressa a voce alta.
Liquidata in tal modo la questione, si domandò se non fosse giunto il momento di adempiere i consueti rituali prima di andare a dormire.
Come ogni sera, anche in quella aveva cenato puntualmente alle venti ed essendo mercoledì aveva cucinato, per pigra consuetudine appresa da sua madre che, per risparmiare tempo e denaro, preparava sempre un rigoroso menu settimanale, una zuppa di lenticchie con qualche salsiccia. Poi aveva sparecchiato, aveva messo via la spazzatura del giorno e lavato i piatti e i denti, in quest’ordine esatto. Mercoledì, dopo cena, guardava sempre un programma in televisione su persone scomparse misteriosamente. Lo aveva sempre annoiato un poco, invero, perché tanto quasi mai nessuno era stato ritrovato o quasi certamente aveva fatto una brutta fine senza che qualcuno potesse davvero provarlo, e sicuramente gli autori della trasmissione ne erano perfettamente consapevoli e sadicamente indugiavano in inutili e infruttuose ipotesi su dove si trovasse lo scomparso e cosa gli fosse successo, giusto per allungare il brodo.
Proprio per tali conclusioni, cui perveniva puntualmente a metà programma, riusciva sempre ad anticipare, di qualche secondo, il rintocco delle ventidue così da essere pronto a sbrigare tutto il resto delle faccende prima di andare a letto, senza perdere altro tempo. A maggior ragione era particolarmente deluso che il rintocco non ci fosse stato.
Si decise quindi a scendere dabbasso, per la consueta ricognizione serale, nel pianoterra della palazzina di sua proprietà dove esercitava, da oltre un decennio, la rispettabile attività di onoranze funebri.
Avanzava come sempre lentamente e con estrema cautela, facendo particolare attenzione ai gradini consunti e tenendosi al corrimano a causa delle fragili cartilagini delle sue ginocchia. “Devo senz’altro decidermi a fare un po’ più di moto”, pensava ogni volta, ma quel pensiero svaniva puntualmente appena discese le scale.
Giunto al pianerottolo svoltò a sinistra, dove si trovava l’ingresso per i clienti e, accesa la luce della piccola anticamera, rimirò con rinnovato orgoglio il suo arredamento.
Era stata un’idea tutta sua e non della buonanima di suo padre. Lo inorgogliva, in particolare, l’angolo a sinistra della stanza, con i suoi due bei divanetti color porpora, dalle bordature colore oro, che aveva personalmente arricchito aggiungendo alcuni morbidi cuscini in seta, dal disegno floreale. Aveva ottenuto quei divani, ovviamente in regalo, alcuni anni prima, fingendo un atteggiamento d’indifferente garbo e sommessa gratitudine, come se facesse loro il favore di sbarazzarsene, dai figli di un defunto, che evidentemente trovavano quegli arredi troppo pomposi per le loro abitazioni ristrutturate alla moda.
Esaminò attentamente i cinque quadri appesi alla parete con studiata distanza, sopra i divani. Li aveva acquistati a poco, e in blocco, a un’asta di beneficenza l’estate precedente, ed era stato a suo parere uno dei suoi migliori affari. I dipinti rappresentavano scene campestri e bucoliche, e non li aveva certo scelti a caso, avevano, infatti, il compito di infondere un senso di pace e serenità che mitigasse il sentimento di afflizione dei parenti in lutto.
In mezzo ai divani, che aveva disposto a elle, aveva sistemato un vecchio tavolino di legno di noce, al centro del quale un diffusore, nascosto nella fitta composizione di fiori essiccati, che ricordava una corona funebre, tanto per non far dimenticare del tutto dove ci si trovasse, emanava un tenue profumo di lavanda e vaniglia.
Insomma, poteva ben dirsi fiero per quell’angolo delizioso e davvero accogliente, una sistemazione fatta ad arte, economica ma funzionale, studiata con amore in ogni minimo dettaglio.
Era in siffatta e ben organizzata anticamera, che lui, tra sé e sé, chiamava “il salotto del compianto” – a suo modesto parere espressione di misurato buon gusto –, il luogo in cui faceva accomodare i suoi clienti, dopo aver mostrato loro velocemente i pochi modelli esposti nella più spaziosa stanza attigua.
Li invitava educatamente, e con il giusto tono di voce, a sedersi sotto la luce tenue e avvolgente di due lampade da terra, ovviamente indirizzate sulle postazioni, affinché, oltre a fare sentire i suoi ospiti bene accolti e a proprio agio, si rendessero facilmente leggibili i cataloghi e il listino prezzi delle bare e degli altri accessori funerari.