Mare, millenaria culla di civiltà
La Nuova Sardegna
30.04.2010
Ora lo sappiamo definitivamente: un pezzo di quello che i Romani chiamavano il Mare Nostrum era anche nostro, dei sardi. La leggenda secondo cui i sardi non amavano il mare è nata subito dopo la caduta dell’Impero romano, millecinquecento anni fa, quando l’isola e il suo mare intorno sono rimasti senza difese e prima i Vandali per un breve periodo, poi a più riprese gli Arabi (le ultime incursioni arrivano alla prima metà dell’Ottocento!) sono sbarcati sulle nostre coste. Ma il rapporto con il mare ha conosciuto almeno due momenti fondamentali nel periodo più antico: primo fra tutti il momento dei grandi arrivi, quando dalla terraferma europea (o magari anche asiatica o magari ancora africana) intere popolazioni si sono trasferite a piccoli gruppi nell’isola iniziando ad abitarvi. Il secondo momento è il periodo nuragico in cui – è un ragionamento totalmente persuasivo di Giovanni Lilliu – la produzione di centinaia di navicelle di bronzo, probabilmente con la funzione di ex-voto, è il segnale di un rapporto confidente e frequentatissimo con il mare. Fra i resti di pasto più antichi ci sono gusci di cozze, mentre conchiglie e valve di arselle sono servite a creare piccoli gioielli domestici. Barche e velieri sono graffiti sulle pareti dell’ipogeo di San Salvatore a Cabras, le decorazioni del tempo della dominazione romana e poi di quella bizantina hanno spesso come tema proprio il mare, le barche, la pesca, i pesci, i delfini. Perché, anche senza navigarlo, il mare è stato sempre una inesauribile fonte di ricchezza se non addirittura di vita per i sardi. Il terzo volume della collana «Antichi mestieri e saperi di Sardegna», che i lettori troveranno domani in edicola in vendita insieme con la «Nuova», dimostra ampiamente questa tesi: anzi, la «racconta» attraverso ventisei saggi di conosciuti specialisti e lo straordinario, gradevolissimo corredo fotografico che li accompagna. Dire «mare» significa subito dire «pesca». È vero che nel passato i sardi hanno in genere lasciato questa attività a piccole comunità di «continentali», in genere campani o liguri, che si stanziavano sulle coste isolane, identificate subito come le basi più vicine per a questo lavoro di sfruttamento del mare. (Un termine, «sfruttamento», che solo adesso ha assunto il significato di una rapina brutale del mare). Ma poi anche i sardi hanno imparato tecniche e creato strumenti per partecipare a questo speciale «raccolto». Basta pensare alle saline, alle tonnare, al corallo – e aggiungiamo, per i golosi, la bottarga di muggine o di tonno – per richiamare un’attività che ha chiamato l’intelligenza degli uomini del mare ad elaborare quelle forme di rapporto con il lavoro che è una delle più complesse e forti eredità che le generazioni passate hanno trasmesso ai figli: la descrizione delle decine di tipi di reti da pesca – o di strumenti come quelli che sono venuti in luce negli scavi del porto romano di Olbia – o della razionalità, per esempio, della struttura della «camera della morte» delle tonnare bastano da sole a farci immaginare quanto «sapere», appunto, si condensi in questi oggetti che in Sardegna si possono vedere in appositi musei (come quello di Stintino, dedicato alla memoria della tonnara e dela sua gente) ma anche ammirare, dal bordo del mare, nei piccoli porti, ancora funzionanti nella vita quotidiana dei pescatori. Centinaia di oggetti, di strumenti, di tecniche, definiti ognuno con un nome specifico: la ricchezza stessa di questo «dizionario del mare» dice molto della sua importanza nella vita della Sardegna. L’impareggiabile documentazione di questo nuovo volume arricchisce gli occhi e stimola la mente. – Manlio Brigaglia