Lutto
Un giorno qualunque
Sul marciapiede, con la maglia sintetica e il cappellino in testa, Chiche saluta sua moglie con un bacio veloce e automatico. Non immagina né sospetta quello che accadrà, come mai potrebbe, e per questo solleva la gamba come al solito, monta in bicicletta e scende per calle Esquiú, anche se svolta rapidamente su Ortiz de Ocampo. La donna invece rientra subito in negozio.
Durante la settimana – e oggi è venerdì – Chiche passa dal velodromo del Parque Roca, fa un paio di giri del circuito e torna indietro. Nel fine settimana – in realtà solo di domenica, perché il sabato è l’unico giorno in cui non va in bicicletta – il tragitto è più lungo, arriva fino a Ezeiza, talvolta fino a Tristán Suárez.
Chiche apre il negozio alle otto e mezzo, mentre sua moglie lo chiude a mezzogiorno (a quei tempi il ritmo del quartiere ricalcava quello dei campi: si rispettava la siesta come spartiacque della giornata). Chiche comincia a riporre le cucine e le lavatrici verso le undici, prima di cambiarsi. Sarebbe un lavoro troppo pesante per una donna, così a sua moglie non resta che abbassare la saracinesca. E attendere, naturalmente, attendere i clienti che possono entrare in quel lasso di tempo (in genere non sono molti, un paio, a volte nessuno). Nel negozio di Chiche le vendite lasciano un buon margine di guadagno, ma sono rare. Una stanza da letto, un frigorifero o una lavatrice, in un posto come quello e in un’epoca come quella, non sono acquisti che si fanno tutti i giorni.
Durante l’ora in cui Chiche è fuori e il negozio viene chiuso, sua moglie di solito spazza il pavimento, passa uno spolverino, mette a posto il bancone, fa cose che non richiedono troppo sforzo né tempo. Non conta quello che fa, ma che ci sia, che si preservi un certo ordine, che il negozio resti aperto fino all’ora indicata sul cartellino appeso alla porta, che Chiche possa fare il suo dovere e poi godersi il suo passatempo, che i clienti siano quantomeno ricevuti. La moglie di Chiche non gestisce né definisce le operazioni, al massimo informa sui prezzi e mostra la merce, dopodiché rimanda le domande decisive e la concretizzazione dell’affare al momento in cui sarà di nuovo presente suo marito (a quell’ora, verso mezzogiorno, di solito la donna dice: torni nel pomeriggio quando c’è Chiche, alle quattro e mezzo è già aperto). Parla in terza persona, come se il negozio non fosse anche suo. In effetti non lo è. Secondo la legge, al massimo, potrebbe considerarsi una proprietà coniugale. Il negozio è di Chiche. Lei condivide la casa e la figlia – la loro unica figlia, Valeria, lei sì, è di tutti e due –, ma il negozio no, il negozio è solo di lui. Il fatto che lei debba chiuderlo ogni giorno fa parte di quello scambio, di quel tacito e amoroso patto necessario all’armonia, all’equilibrio, al bilanciamento dei doveri di coppia o, come si suol dire, del ménage famigliare. Ma è solo una parte. La mattina presto, per esempio, è lei che si occupa di Valeria che deve andare a scuola, mentre Chiche, prima di aprire, fa qualche consegna o sistema la merce in magazzino. Nel pomeriggio è lui che apre e chiude il negozio, mentre sua moglie si occupa di Valeria (che è tornata da scuola), fa la spesa e prepara la cena.
Tornando al principio, Chiche se ne va alle undici e mezzo in bicicletta e rientra tra l’una e l’una e mezzo, quando il negozio è già chiuso e sua moglie sta per servire il pranzo. Quel venerdì, quando Chiche se ne va e sua moglie prende il suo posto, a lei tocca solo passare uno straccio umido su un tavolo basso sul quale un bambino (il figlio di qualche cliente) ha poggiato le dita sporche. Dopodiché, la moglie di Chiche siede al bancone per leggere il giornale. Dopo un quarto d’ora bussano alla porta. Il negozio non ha campanello. Chiche non lo ritiene necessario, lui di solito è disponibile, all’interno o sul marciapiede, e l’ingresso è costituito da una porta di vetro sull’angolo, come di vetro sono le sei vetrine laterali. Sulla porta ci sono due uomini.