“Lunga è la notte”, il romanzo di Marinette Pendola su L’Ottavo
Lunga è la notte
Con questo Lunga è la notte, Marinette Pendola, ci porta nuovamente in Tunisia. Sua terra di nascita, il paese nord africano è, da tempo, al centro dei suoi studi e della sua scrittura e qui, tra queste pagine, ci conduce tra le pieghe di qualcosa che lei, nata a Tunisi, da genitori siciliani, conosce bene, quella sorta di emigrazione al contrario, quella fatica di “mescolarsi” in una terra straniera che, per quanto possa accogliere, resta sempre straniera.
Lunga è la notte, in cento pagine di scrittura tesa e pulita, ci conduce nella Tunisia del 1936, per la precisione a Bir Halima, più che un villaggio un agglomerato di case, costruite una attaccata all’altra, proprio da una piccola comunità di siciliani, emigrati in questo angolo di Mediterraneo, caldo e polveroso, come la terra natia. Ed è tra queste stradine, tra queste case bruciate dal sole, tra sapori di tè alla menta e riverberi tremolanti per il caldo, che in una notte d’estate del ’36 avviene un femminicidio. Perché di questo si tratta e non di un “semplice” omicidio. Una giovane donna verrà uccisa davanti agli occhi di suo figlio, allora bambino, mentre teneva in braccio la figlia più piccola, miracolosamente (o forse no) scampata alla morte.
Da questo episodio prendono il via una serie di eventi che vedono figure femminili in primo piano. Figure femminili che non si lasciano spaventare, cercando di tenere insieme i tanti pezzi in cui, quel femminicidio, ha frammentato la vita loro, della loro comunità e delle loro famiglie.
A distanza di anni, ormai anziano, quello che allora era bambino, che a stento ricorda la madre uccisa, vuole tentare di fare chiarezza. Vuole, nella confusione dell’età e ormai prossimo alla fine dei suoi giorni, trovare quei particolari sepolti nella memoria. Quel male assoluto che, la vita e il bisogno di difendersi, avevano rimosso e reso nebulosi.
Ma quella che si presenta quasi come un noir è in realtà una storia di mescolanze culturali, spigolose e fluide al contempo, in cui quegli italiani emigrati sono e saranno sempre “i siciliani”, un po’ selvaggi, un po’ devoti, un po’ pagani. Con questi cliché in testa, il brigadiere Latrousse (anche lui un emigrato, seppur francese di Provenza) e il suo sottoposto Mathieu, svolgeranno un’indagine che sarà più che un atto poliziesco, un viaggio appunto dentro differenze culturali difficilmente superabili. Dura uscire dallo schema di un omicidio familiare quando il contesto in cui viene commesso è quello di una comunità stigmatizzata e portatrice di stereotipi, volente o nolente. Dura condurre un’indagine, seppure non priva di punti poco chiari, quando si avverte che ciò di cui ci sembra di essere convinti, scricchiola da qualche parte.
E intanto Tanina e ‘Nzula, le vere protagoniste del libro, sono la voce vera e più autentica di quella comunità, la voce di chi, in quanto donna, non si volta dall’altra parte, mentre gli uomini sono lontani, a mietere i campi o a perpetrare il solito linguaggio del “pareggiare i conti”. Linguaggio a cui sembra non riuscire a sottrarsi neanche il protagonista, quel bambino di allora e anziano di oggi che verrà salvato dai suoi propositi da un finale, forse un po’ scontato ma, non per questo meno evocativo.
Da una parte il male, fine a sé stesso anche se, per chi lo commette, ha sempre un motivo e dall’altra la capacità del bene, di prendersi cura dei dubbi e dei gesti. E, in mezzo, l’inganno che i ricordi possono mettere lungo il cammino, con la loro capacità di tenere insieme le cose ma, anche, quella di confonderle e renderle pericolosamente immutabili.
Geraldine Meyer