Lunga è la notte
Questa storia è vera. I personaggi invece no. Intendo dire che i fatti sono avvenuti così come li racconto, dall’evento scatenante fino all’epilogo finale che ha mantenuto nel tempo il suo alone di mistero. Si sono svolti a Bir Halima, piccolo paese a una sessantina di chilometri a sud di Tunisi in cui era presente una folta comunità di siciliani.
I personaggi, invece, sono frutto della mia fantasia, tutti, dal protagonista fino ai più marginali come il sarto Calandra o la moglie del brigadiere Latrousse. Ho scrupolosamente evitato di raccogliere informazioni sui veri protagonisti e ho voluto rappresentare i personaggi come ho immaginato che potessero agire di fronte agli eventi narrati. Ciò però non significa che non abbiano una loro verità. I lettori discendenti da quella comunità hanno sicuramente sentito raccontare questa storia che turbò gli animi di tutti. Se tuttavia avvertissero il bisogno di ritrovare persone reali o cercassero attraverso l’agire di alcuni di essi similitudini con la realtà, andrebbero incontro a delusione certa. La verità dei fatti giace in qualche archivio polveroso della Gendarmerie nationale francese. La verità dei miei personaggi vive all’interno del romanzo e a essa soltanto rispondono.
I
La pastina. La pastina sparpagliata sul pavimento. Per qualche tempo ci fu solo quello.
Poi, come uno spesso strato di cenere, un grigiore uniforme coprì ogni cosa. Per anni, per una vita intera. Fino a oggi. E ora, mentre infilo la chiave nella toppa e sto per aprire la porta di casa, appare un’immagine all’improvviso. Mi abbaglia quasi. Mi fa tentennare mentre varco la soglia e mi avvio verso la camera. Ora ricordo. Ricordo perfettamente quello che avvenne quella sera. Attimo dopo attimo. Ricordo che faceva caldo, molto caldo. Avevamo tenuto la porta aperta sulla campagna nella speranza che un po’ di brezza entrasse in cucina. La mamma dava da mangiare a Carmelina che non ne voleva sapere di stare seduta a tavola. La teneva in braccio con il sinistro, mentre con la mano reggeva il piatto pieno di minestrina e con la destra la imboccava. Camminava a passetti sereni tagliando in diagonale la stanza, avanti e indietro, con ritmo lento e sicuro, incitando la piccola di tanto in tanto. Il papà non c’era. Mieteva il grano in campi lontani da casa insieme al nonno e agli zii, lo ricordo bene, e trascorreva le notti accampato con loro. Sarebbe tornato a fine mietitura, forse qualche giorno dopo, non so esattamente.
«Vai a chiudere la porta», disse la mamma. «Comincia a fare buio.»
Mi alzai da tavola e corsi verso l’entrata. Mi misi in punta di piedi, allungai il braccio fino alla serratura ma non riuscii nemmeno a sfiorarla. Ero ancora piccolino, avevo solo sei anni.
«Mamma, non ce la faccio», le dissi riaprendo il battente.
«Ora vengo io», e si avvicinò con la bimba in braccio, il piatto e il cucchiaino. Forse si affacciò, non ricordo. Forse guardò per un istante nel cortile. Forse sentì un lieve fruscio dietro il gelso. Appena lei fu sulla soglia, uno scoppio secco, un fragore di piatto rotto e la pastina sparpagliata per terra.
Per qualche tempo ci fu solo quello. Poi più nulla.
Bir Halima, 21 giugno 1936, appena dopo il tramonto
Quella sera, Tanina aveva finito tardi. Aveva aspettato che un po’ di frescura scendesse dalla montagna per riempire il ferro di carbonella rovente e cominciare a stirare. Poi si era tolta le ciabatte e aveva appoggiato la pianta dei piedi sul pavimento fresco. Solo così aveva potuto trovare la forza d’impugnare il ferro. Aveva lavorato fino al tramonto, passandolo velocemente sulla biancheria, piegando e ripiegando. Si era messa in testa di finire tutto il bucato accatastato sulla sedia prima di mettere i bambini a tavola. Non si era preoccupata della cena. Due pomodori raccolti durante la mattinata nell’orto, una cipolla, un cetriolo e qualche oliva sarebbero bastati per fare una bella insalata. Con un goccio d’olio e il pane che non mancava, era una cena più che soddisfacente, tanto più che Peppe era andato a mietere con i fratelli e il padre, e non sarebbe tornato prima della fine della settimana successiva. A lei e ai bambini un piatto d’insalata poteva bastare.
Era contenta Tanina della sua vita. Mentre passava il ferro su una federa, ripensava agli ultimi dieci anni, quelli del suo matrimonio, della sua partenza per la Tunisia, della casa a Bir Halima, costruita come al paese suo, insieme a tutta la famiglia del marito. Se l’era trovata bell’e pronta, la casetta, addossata a quella di Santina, la cognata, e di fianco a quella dei suoceri. Due stanzette che contenevano appena i letti e un armadio, e una cucina un po’ più grande. Era sufficiente per una famigliola come la sua. Quello che le piaceva di più era che la porta dava sulla strada, meglio, molto meglio di quella di Santina, che si apriva sul cortile interno e di fronte aveva un grande gelso e qualche cespuglio, e poi campi e solo campi che scendevano verso valle. Era una strada sterrata quella che passava lì davanti e andava verso le case di altri contadini, una strada poco frequentata, a dire il vero, ma a lei bastava. Nei lunghi pomeriggi d’estate, prendeva il rammendo e si sedeva sulla soglia all’ombra, a guardare passare la gente, rare donne che andavano a trovare la moglie di Turi, ’Nzula la sarta. Spesso anche la suocera e la cognata le tenevano compagnia. Qualche volta – ma sempre più raramente oramai – capitava Caterina, la sorella minore di Santina, che amava trascorrere lunghi periodi a Bir Halima. Erano buone quelle persone, e lei si era sentita molto presto una della famiglia. Non aveva nessun rimpianto per la Sicilia. Solo ogni tanto le prendeva la nostalgia della madre, ma sapeva che ben presto si sarebbero ritrovate. E poi c’era Peppe, bravo come tutti i suoi. Davvero non aveva di che lamentarsi.
Quella sera, aveva appoggiato il bucato stirato e piegato sul comò, aveva preparato la cena, si era affacciata sulla soglia e aveva gridato: «Bambini! A casa! È pronto!» Dopo qualche istante aveva aggiunto: «Lavatevi le mani, e anche la faccia, che sembrate proprio due carbonai!»
«Ma tanto il papà non c’è.»
«Che cosa sento? Il papà non c’è? Ci sono io però. E c’è questa grazia di Dio in tavola. Volete toccare la grazia di Dio con quelle mani? Avanti! E di corsa!»
Erano finalmente tutti seduti a tavola. Lei distribuì l’insalata nei piatti. Si sedette con il pane in mano. Era sul punto di afferrare il coltello per tagliarlo quando un rumore secco e potente, oltre il muro della cucina, la fece sussultare. Uno sparo. E il pianto prorompente della piccola Carmelina.
Non sa Tanina per quanto tempo rimase impietrita sulla sedia, un secondo, un minuto o un’ora. Si avvide degli occhi sgranati dei bambini fissi su di lei e solo allora mosse le mani. Tagliò a fette il pane e lo distribuì: «Mangiate, bambini. Io vado dalla nonna e torno subito.»
Afferrò il fazzoletto che teneva appeso a un chiodo dietro la porta ma dimenticò di coprirsi il capo. Si precipitò dalla suocera, bussò, ma nessuno venne ad aprire.
«Mamma, Tanina sono. Aprite!»
Bussò e ribussò. Poi, non si sa quanto tempo dopo, la porta si scostò appena.
«Mamma, ho sentito uno sparo. Avete sentito anche voi?»
Per tutta risposta, la vecchia l’afferrò per un braccio, la tirò dentro e chiuse precipitosamente il battente.
«Ora tu torni a casa tua, spranghi la porta e non esci fino a quando non torna la luce del sole. Hai capito?»
«Mamma, Carmelina piange… Qualcosa è successo…»
«Fa’ come ti dico! E non discutere.»
Se ne tornò a casa, rinserrò la porta e si sedette a tavola. I bambini non avevano ancora iniziato a mangiare. Muovevano la forchetta fra i pezzetti di verdure come se dovessero scegliere accuratamente il boccone, ma non portavano niente in bocca.
«Mangiamo, bambini.»
«Che cosa è stato?», chiese uno di loro.
«Non lo sappiamo.»
«Carmelina piange ancora. Che facciamo?»
«Niente.»
Tanina inzuppò un pezzetto di pane nel sughetto ma dimenticò di metterlo in bocca. Il pianto di Carmelina le sconquassava il cuore. Afferrò una fettina di cetriolo con la forchetta, la portò verso la bocca, poi tornò a posarla nel piatto. Carmelina piangeva ancora. All’improvviso, si alzò.
«Bambini, state buoni. Vado a vedere cosa succede dalla zia Santina», disse.
Si legò con cura il fazzoletto sotto il mento, aprì lentamente la porta, scandagliò con attenzione le ombre davanti a casa, poi scivolò lungo il muro, fece il giro dell’isolato, guardò rapidamente oltre il gelso e i cespugli, e, con un salto lesto, arrivò davanti all’entrata di Santina. La porta era spalancata. Fece un respiro profondo, salì di corsa i due gradini. E lì la vide, a terra, in una pozza di sangue, con un piede che sporgeva appena oltre la soglia. Carmelina era seduta per terra accanto alla madre, con il vestitino chiaro imbrattato di sangue e le guance intrise di lacrime. Mimmo era su una sedia, pietrificato.