L’ombra di Tiepolo
1726
Accade talvolta che un organismo fiaccato dalla malattia e vicino alla fine, mentre la morte si avvicina per baciarlo sulla bocca e insufflare dentro di lui il suo alito gelido, sia ravvivato da un repentino ed elevato stato di coscienza. È come se un fulmine lo attraversasse per squassarlo in uno spasmo finale. Il cuore concede qualche battito regolare, i polmoni si dilatano in un ultimo respiro, e la mente scende da un altopiano di nebuloso torpore penetrando in una convalle rischiarata da ricordi. A questa folgorante e radicale visione non si sottraggono organismi più complessi: società, Stati e civiltà possono sperimentare tali momenti come una ricapitolazione della loro esistenza, come monito e testamento per le future generazioni.
Ciò che muore non finisce ma si trasforma.
Allo spirare del secolo diciottesimo mentre l’Europa era contagiata dai germi di epocali cambiamenti e figure empie come Robespierre, Danton, de Sade e Cagliostro scavavano i fossati che sarebbero stati inondati dal sangue e dal terrore convogliando in essi il veleno ideologico che la Francia avrebbe sparso nel mondo, a settentrione della penisola italiana resisteva agli sconvolgimenti una oramai irrilevante sovranità chiamata Venezia. In tempi benedetti essa aveva gettato i semi di una civiltà irripetibile e aveva diffuso nel mondo sprazzi di bellezza e sapienza. Essi erano attecchiti ed erano cresciuti come i frutti della palma; schiere di uomini se ne erano nutriti. La sua supremazia era talmente incontestata che i popoli l’avevano chiamata Serenissima.
Poi essa sfiorì.
Nel supremo momento della sua agonia, Venezia ebbe però un sussulto di vitalità, un ultimo momento di felicità quasi a dichiarare che essa sarebbe sopravvissuta in eterno nel suo monito alla bellezza come un simbolo di quello che il mondo avrebbe potuto incarnare ma avrebbe rifiutato di essere.
Quel colpo di coda, quell’estate di san Martino in un inverno già calato suscitò geni come Carlo Goldoni, Antonio Vivaldi, Canaletto, Giovanni Battista Piranesi, Antonio Canova e Rosalba Carriera. Al di sopra di tutti questi, come un sole allo Zenit, ascese un artista che avrebbe indotto gli uomini a sollevare gli sguardi verso il firmamento: il suo mondo non era in Terra ma in un Cielo fatto di luce e colore.
Si chiamava Giambattista Tiepolo.
I libri d’arte di tutto il mondo raccontano che una tappa della sua sfolgorante carriera si sviluppò in una piccola città della Serenissima Repubblica che ancora oggi viene chiamata “La città del Tiepolo”: Udine.
Nessuna biografia ha tuttavia raccontato la sua vita privata e la piega inaspettata che essa prese durante il suo breve soggiorno. Gli affreschi che ha dipinto sono ancora lì e chi leggerà questa storia non riuscirà più a guardarli con occhi distratti.