“Lo storiografo dei disguidi” su Nierden Gasse
Lo storiografo dei disguidi di Paolo Codazzi
Mettere in dubbio ogni certezza. Non ritenere che ci sia qualsiasi forma di determinismo al di fuori del ciclo vitale. Possedere la consapevolezza che perfino « molti avvenimenti della Storia, celebrati da generazioni di studiosi e politici, in realtà furono frutto del caso, o meglio di quella parola formata dalle stesse lettere: il Caos » (p.136), sicché l’unica forma di storiografia affidabile non è quella sterilizzata e codificata nei libri degli storici (« chirurghi ubriachi »), ma è quella che si fonda sull’arbitrarietà di chi osserva con distrazione gli avvenimenti e li tramanda senza scrupoli filologici, dato che lo stesso caos si nutre inevitabilmente di equivoci, dato che la serietà ostinata non è nient’altro che una seriosità arrogante. Forse sono questi gli assunti alla base dei racconti spensierati ma non distaccati di Paolo Codazzi, raccolti nello Storiografo dei disguidi (Arkadia, pp. 141). Racconti nei quali Paolo Codazzi, con la sua affascinante sintassi ipotattica, affonda il coltello di un aereo nichilismo partecipe nella carne del corposo, invadente dogmatismo quotidiano; nei quali l’autore s’inoltra nel grottesco della meschina svalutazione automatica degli uomini e dei fatti a prima vista privi d’interesse, per ribaltarlo, sostituendo il deprezzamento con la stima paradossale, trasformando l’inconsistenza con l’importanza di un altro tipo di grottesco, quello che deforma la realtà per troppo affetto, che deride gli assiomi ufficiali per troppo rispetto. Ed ecco che l’umile orgoglio paesano di possedere un’ambulanza si trasforma nell’imbarazzo di avere ospitato con entusiasmo un cavallo di Troia (L’ambulanza [aznalumba]); che le strambe farneticazioni di un uomo bizzarro si rivelano verità (Lorenzo); che il falso ritrovamento di alcune lettere di Garibaldi si scontra con un doppio furto millantato delle stesse (L’insonnia di Garibaldi); che due cani aggressivi diventano degli spettatori perplessi della rissa tra i loro padroni (Cani); che un cartello stradale, in cui il vero nome di un località è casualmente storpiato, diviene una fonte di floridezza per una comunità (Lettera al Presidente delle ferrovie); che l’attesa di un assolo di violino acquista più valore dell’esibizione stessa (L’attesa); che una statua umana muore colpita da un proiettile vagante (Monumenti in restauro); che nei mattatoi si macellano indistintamente, e per lunga tradizione, uomini e animali (Nei mattatoi comunali). Tutta questa palpabile contraddizione del vivere e dell’interagire; questo scambio dolente ma divertito tra umano e animale; questo ripetersi di archetipi ridimensionati e di gesti irriflessi, trovano la loro giusta sintesi nell’invito sottaciuto alla tolleranza, nell’esortazione esplicita ad apprezzare la memoria, personale o di un gruppo sociale, in quanto custode vigile «che si oppone alle forze disgregatici del tempo, a quell’oblio che tende a sotterrare le tracce di una storia necessaria alla nostra identità individuale e collettiva» (p. 84). Un’identità individuale e collettiva che per Codazzi si identifica nel rinascimentale splendore fiorentino e nella risoluta umanità dei suoi abitanti, non ancora del tutto intaccati dalla degenerazione degli abusi edilizi, delle postmoderne grossolanità, dei secolari valori trascurati, delle dispersioni superficiali causate da un cosmopolitismo d’accatto.
Paolo Marati
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