“Lo specchio armeno” su L’Ottavo
Anatomia di un romanzo-saggio: dentro “Lo specchio armeno” di Paolo Codazzi
Della natura di quella forma-romanzo che, da quattro secoli e mezzo, ostinata si avvita nel nostro immaginario, invadendolo con scenari e figure più vere del vero, Lo specchio armeno di Paolo Codazzi eredita la duttilità delle strutture, sempre pronte a modellarsi su filigrane della tradizione e, insieme, ad adattarsi a modi nuovi dell’immaginario e della civiltà che lo contiene. In questo senso, il romanzo moderno non solo fa dell’assenza di una severa codificazione antica il suo punto di forza, volgendolo in piglio metamorfico, ossia ponendo lo scrittore nella condizione di inventare le leggi artistiche di questa forma direttamente nella praxis, nel fare l’opera, modellando, col suo stile e con la sua visione, lo spaccato di realtà da trasformare in narrazione; ma dilatandola a dismisura rispetto agli altri “generi” che, nel mentre, come gusci vuoti, si avviano a tramontare o a entrare in lunghe zone di crisi. La vitalità che rende immortale il romanzo moderno è tutta racchiusa in questo cannibalismo senza requie che porta nel tessuto connettivo della narrazione ora la poesia, ora la filosofia, ora l’antropologia; ora la tirata di costume, l’affondo psicologico, le fonti visive, lo spaccato analitico di storia e rende godibili perfino registri di segno opposto, che d’acchito sembrano inadatti ad attagliarsi al magma affabulatorio del romanzo, come nel caso di una ricognizione meteorologica, di una ricetta di cucina, di un labirinto topografico, di un volo erudito. Lo specchio armeno appartiene a quella genia di romanzi-saggi nei quali plurimi livelli si intrecciano senza sosta e trasformano il meccanismo del plot in un sistema di incastri combacianti al limite del virtuosismo. Un ingranaggio che non lavora solo a cucire episodi, simmetrie temporali, sistema di personaggi, colpi di scena e spazi; ma agisce per costruire una ragnatela di sotto-testi in perpetuo dialogo. In questo senso, nel telaio del suo romanzo Codazzi fa rifluire pagine saggistiche di storia dell’Inquisizione e bozzetti paesistici pervasi di lirismo; antichi erbari che nascondono libri di stregoneria e trepidi slarghi paesistici e urbani di moderne metropoli; nel giro serrato di una sequenza, rovescia, flaubertianamente, il pathos di un funerale nella leggera frivolezza di un matrimonio; oppure fa cozzare il dinamismo introspettivo di una lettera con l’ossessione sacra, al limite del purismo, di un pittore copista per le tecniche e i ricettari antichi. Possiamo passare dalla ricognizione dell’amore che sembra prossimo a scivolare nel nobile codice stilnovista alle “stime metereologiche” viste nell’imbuto del passato storico. Questo fermento policentrico sommuove una materia stratificata, che, in mani meno esperte, sarebbe scaduta nel guazzabuglio dissonante di un patinato tentativo post-modernista; mentre sullo scrittorio di Codazzi la varietà pirotecnica ed esuberante della materia in gioco è tenuta in piedi dalla coerenza e unità dello stile. Ricordo che, all’università, ottimi maestri ci insegnarono che un’opera d’inchiostro, prima di tutto, doveva essere valutata, e, quindi, reggere sul piano del “grado di letterarietà” e del “tasso di figuralità” – due espressioni del lessico critico che ho sempre trovato molto limpide e pregnanti, entrambe perifrasi per dire se l’opera che abbiamo sotto gli occhi funziona a livello espressivo, oppure no. Dall’incipit – la cui principale sintatticamente è incastonata nel mezzo di una raggera d’una quindicina di subordinate, a dirci subito la tenuta per via “di mettere” di questa prosa dal passo lungo (lontana dal prosciugamento per via“di levare” di tanti dettati contemporanei) – Lo specchio armeno si impone come un testo dove ogni costrutto esce da un sontuoso lavorio di cesello, sia a livello di impalcatura sintattica, lavorata per espansione; sia a livello di tavolozza lessicale, come se gli oggetti della rappresentazione dovessero essere nominati fino in fondo con un’esattezza che sfiora un monocolo poroso e lenticolare, tra fiammingo e iperrealista. L’aria di famiglia stilistica è così, da subito, disvelata come un marchio di appartenenza: una sorta di ideale linea genetica che sposa l’alto nitore artigiano proprio di una scrittura “di cesello” al guizzo inventivo e spiazzante – una vena bifronte che viene dalla lezione secentesca di Daniello Bartoli, superbo prosatore, interseca i narratori dal passo lungo, tra Cicerone, Boccaccio e Proust; sfiora Carlo Dossi, riattiva il calibrato “misto di storia e d’invenzione” manzoniano, e rivela la consanguineità con alcuni modelli novecenteschi, come Gadda e Consolo, o contemporanei come Michele Mari, e, per la presenza di opere visive evocate “per verba”, c’è un sotteso e irrinunciabile timbro longhiano rivolto alla tradizione degli scrittori d’arte. Perché la pittura? Perché al centro della trama, incuneata in una matrioska di incastri temporali antichi e moderni, svolta in un costante registro ibrido tra narrazione e saggistica, si muove Cosimo Armagnati, pittore copista, la cui bravura camaleontica viene dalla lezione di maestri come Cennino Cennino e Federico Joni, convinto come questi ventriloqui di maniere che non ci possa essere scomposizione a ritroso del processo creativo del maestro senza fedeltà del medium, senza tecniche che mantengano, nella loro tenuta, una vocazione inattuale. A Cosimo arriva tra le mani una committenza che, nel corso del romanzo, si scoprirà epifanica, tanto da gettarlo in un suadente impulso pigmalionico sospeso tra realtà e finzione, come per il Frenhofer del Capolavoro sconosciuto di Balzac. È questa una delle nervature più robuste de Lo specchio armeno: attraverso Cosimo Armagnati e l’eccezionalità della sua committenza, Codazzi resuscita il mito di Pigmalione e Galatea, volgendo però lo struggimento romantico per la creazione che diventa vita nel suo opposto stregonesco e nefasto. Attorno a Cosimo, in una geografia spalancata tra Firenze e Palermo, si dipanano personaggi come il sovrintendente Ferdinando Vella, sorta di erudito Bouvard, dal naso bitorzoluto, quasi stigma di una maledizione genetica, e con il pallino del dongiovannismo; fino a figure di sfondo, ma abilmente tratteggiate, come Michele Bellomo; mentre la costellazione dei personaggi muliebri si tiene divaricata tra una polarità di seduzione e malia, con la materializzazione di Beatrice, e, all’opposto, uno spazio di riscatto e salvezza con Laura che apre e chiude il romanzo, divenendo, nei lunghi tormenti di Cosimo, entità prismatica e talismano pacificatore. Nel suo processo di scrittura, Codazzi lavora su grandi campiture, delineando fondali storici, epoche, riti, culti, e, poi, d’improvviso, si china, con lente e bulino, e lavora la materia come una maestro orafo o un calligrafo miniaturista. Per questo Lo specchio armeno è un romanzo che si legge come un saggio ed è un saggio che si legge come un romanzo, senza mai perdere la qualità di visione che sorregge entrambi i linguaggi: quell’esattezza di nominazione che è la cifra di Codazzi, come se ogni parola scelta, ogni frase, ogni espansione lessicale ci facesse entrare nella più intima fibra delle cose. O meglio, come se la parola scritta inseguisse il desiderio di diventare la cosa di cui parla. Non è forse questo anche il desiderio struggente che lavora in ogni pittore copista: pantografare, il più mimeticamente possibile, l’opera del maestro? E non lavora così lo scrittore di romanzi, accordando il suo stile e la sua lingua alla complessità del reale e della natura umana?
Davide Pugnana
Il link alla recensione su L’Ottavo: https://bitly.ws/39EB2