L’intervista a Valentina Di Cesare su Il Centro
«Amo la provincia è di ispirazione per i miei romanzi»
È uscito “L’anno che Bartolo decise di morire” il nuovo libro della scrittrice di Castel di Ieri
«Non c’è un protagonista unico, ma un punto di vista privilegiato che è quello di Bartolo». Valentina Di Cesare presenta così il suo secondo romanzo, “L’anno che Bartolo decise di morire”. Il libro è da giovedì 20 in libreria per la collana di narrativa “Senza rotta” della casa editrice Arkadia, ed esce cinque anni dopo “Marta la sarta”, esordio della scrittrice originaria di Castel di Ieri. Di Cesare, insegnante di lettere a Milano, dà alle stampe quello che considera «un romanzo corale», nel quale fa i conti con temi quali la solitudine e l’incomprensione, la precarietà dei rapporti umani ma anche quella del lavoro.
Chi è Bartolo?
È un uomo di mezza età che vive in una piccola città di provincia. Ha il suo gruppo di amici che frequenta dall’infanzia, e che col passare del tempo rivelano le proprie debolezze: chi per i condizionamenti della famiglia, chi per un matrimonio infelice, chi perché pensa solo al lavoro. Bartolo è sempre presente nelle vite degli amici ma, poiché non si lamenta mai, loro pensano che stia bene e non abbia bisogno di nulla, quasi non lo considerano, e tra loro c’è solo uno che si accorge della sua forte depressione.
La precarietà è in fondo la vera protagonista di questo romanzo?
Viviamo in una società in cui sono forti l’individualismo, anche involontario, e l’incapacità di comprendere quando intorno a noi ci sia dolore, anche nelle persone più vicine che riteniamo di conoscere: percepiamo le cose solo quando emergono in maniera evidente, non ci si ferma mai a osservare i dettagli.
Nella storia di Bartolo emerge solo la precarietà dei rapporti umani?
No, anche quella sociale ed economica, dovuta alla preoccupazione per l’instabilità lavorativa. Alcuni amici di Bartolo non hanno un buon lavoro o stanno per perderlo. Altri invece godono di una certa tranquillità perché le famiglie li hanno aiutati, si sono giovati di una “raccomandazione”: è un aspetto purtroppo vivo nella nostra cultura, a causa del quale molti non comprendono determinati problemi.
Lei vive a Milano, una grande città che non ha toccato le sue corde creative.
Sinceramente mi sento più ispirata dai luoghi dove sono nata e cresciuta, che sono quelli in cui ci si scopre, dove sembra che non accada niente perché non succede nulla di sconvolgente. I piccoli centri hanno tanti svantaggi, ma di contro offrono più vicinanza alle cose, si vede più da vicino come funzionano i rapporti tra le persone ed è più difficile passare inosservati.
Le cittadine di Bartolo e Marta sono un posto in particolare?
No, cerco di non localizzare nel tempo e nello spazio le storie: ho la vocazione a non dare riferimenti perché parlo di sentimenti che considero centrali e che sono sempre gli stessi, senza far risaltare il contorno. Certe sensazioni sono uguali a tutte le latitudini e non cambiano col tempo. La scrittura è una cosa che si dà al lettore: in fondo a lui appartiene il libro, e quando si materializza a lui spetta di collocarlo in un tempo e in uno spazio.
Come è cambiata dal suo esordio a questo secondo romanzo?
“Marta la sarta” è stata un po’ un’esplosione di emozioni incontrollate, con la vocazione per la scrittura che veniva fuori. In entrambi resta uno stile abbastanza riconoscibile, un’atmosfera ovattata, non un realismo vero e proprio. Poi in cinque anni si cambia, e in “Bartolo” c’è stato anche l’aiuto dell’editor che ha tirato fuori capacità che non credevo di avere.
Il suo primo libro è stato tradotto in rumeno: l’ha emozionata?
È avvincente pensare di essere letta in un’altra lingua, anche se lo facesse una sola persona. È iniziato per caso: durante un convegno all’Università di Craiova ho conosciuto un professore di lettere, siamo rimasti in contatto, gli ho spedito il libro e lui l’ha proposto a un dottorando per tradurlo. È in corso una traduzione in spagnolo e un capitolo sarà tradotto in arabo su una rivista dell’Università del Cairo: cose che nascono per caso, da rapporti umani e con un po’ di inconsapevolezza, ma dalle quali arrivano risultati importanti.
Da “Marta la sarta” ha anche tratto uno spettacolo la regista Eva Martelli: si è riconosciuta nella versione teatrale?
Mi ha molto emozionata: è stata un’interpretazione bellissima e acuta, che ha dato nuova vita ai personaggi con un’energia che non avevo visto. Vi ho ritrovato le sensazioni di quando lo scrivevo: è stato un viaggio surreale dentro me stessa, che mi ha fatto venire voglia di rileggermi.
Da insegnante di lettere come vede i ragazzi di oggi e il loro rapporto con la lettura?
È importante che leggano ed è importante che un professore sappia sostenerli e incoraggiarli con begli esempi. In questa età si inizia a far capire quanto sia importante studiare: è una bella responsabilità e io ce la metto tutta.
Andrea Rapino