Letti da un soldo, di Enrique González Tuñón

Un estratto dal racconto che apre il libro, "I cinque"

 

I CINQUE 

 

Eravamo in cinque, e non ci dicemmo mai altro che “Buona notte”.
Il vicino che dormiva alla mia destra aveva un sorriso ripugnante come quello dei manichini. Raggiungeva il suo letto in punta di piedi per non disturbare i nostri sonni e se ci scopriva con gli occhi aperti ci salutava con l’atteggiamento invitante di un commesso di negozio.
Quello a sinistra, dal viso sporco e barbuto, aveva sempre un’aria da contrabbandiere; nascondeva la biancheria sotto il materasso per paura dei furti o delle perquisizioni, e si rannicchiava sotto le lenzuola come un colpevole. Verso sera lasciava il ricovero e, con le mani nelle tasche di un soprabito nocciola, andava a piazzarsi all’angolo tra Corrientes e Talcahuano, o all’angolo tra Victoria e Salta, in attesa di un cliente disposto a strapagare la cocaina che lui e la Nucha avevano tagliato col bicarbonato. Degli altri due inquilini, uno era un vecchio Canario, accattone e piagnucoloso, che cantava malagueñas accompagnandosi con una chitarra asmatica e faceva girare il piattino della sua miseria fra gli alcolizzati seduti ai tavoli dei caffeucci sul litorale.
L’ultimo del gruppetto era un ex azzeccagarbugli laureato in papocchi e nel campare a spese altrui, un uccellaccio del malaugurio, pieno di reumatismi e di un catarro cronico la cui tosse rauca rompeva il silenzio nell’infermeria del ricovero.
Eravamo in cinque e ognuno di noi viveva in un suo mondo a parte.
Cinque uomini e la stessa solidarietà della fame nel casermone coloniale divenuto ricovero di poveracci, inventato da Solano, il padrone, per mascherare dietro la professione di albergatore lo scellerato tracollo di una frustrata onestà. Sulla facciata del casermone grigio e tetro spiccava la luce desolata di un’insegna: “Letti, da un soldo in su”.
Alla locanda dei questuanti e dei vagabondi ci arrivai di malumore. La chiamavano La Pignatta Misteriosa per via del cibo a prezzo infimo e per l’aspetto degli avventori, gente solitaria, quasi tutti equilibristi sull’orlo della fame.
I servizi li faceva un robusto ragazzotto spagnolo con i capelli biondi arruffati che non avevano mai visto il pettine, che si alimentava a base di una pappa priva di sostanza e non si concedeva eccessi neanche per scherzo. Viveva in assoluta astinenza sessuale per paura di indebolirsi e buttare nel cesso il suo brillante futuro di lottatore greco-romano.
Curava il portafogli più della salute: al minimo accenno di morosità lasciava che il sangue gli imporporasse il viso e balbettava proteste accavallandole una sull’altra.
Ogni tanto uno degli ospiti divorava la sua scodella, beveva il suo litro di vino, e con la bocca piena gli diceva: «Jesus, ti pago domani.»
Lui cambiava colore, faceva due occhi da agnello sgozzato, li alzava al tetto coperto di ragnatele, e prorompeva:
«Che Dio mi aiuti! Qui non si ricava neanche da sopravvivere!»
C’era sempre un amico alla Pignatta Misteriosa, e la speranza di scaldarsi con un bicchierino.
Una sera decisi di scappare dal marasma della città e fuggire chissà dove, il più lontano possibile, senza passaporto, senza biglietto.
«Parto: vado in Europa», mi dissi, con lo stesso spirito con cui Svidrigajlov1 aveva detto «Amico mio, vado all’estero» prima di tirarsi un colpo in testa, proprio a due passi dal campanile. Ma il tentativo di imbarcarmi come clandestino andò male e così finii per nascondermi in un vagone merci delle ferrovie del Sud. Tutto il mio bagaglio era avvolto in carta di giornale: una camicia logora, pulita, e un paio di calze.
Rimasi nascosto per un’ora, dopodiché, stanco di aspettare, mi affacciai alla porta del vagone: il treno era partito lasciandolo lì. Abbandonai il binario desolato e tornai in centro trascinando l’anima a viva forza.
Camminavo con le mani nelle tasche dei pantaloni, la giacchetta lisa sollevata che metteva in mostra i rammendi sul sedere, il naso livido dal freddo e lo sguardo fisso a terra, un po’ nella remota speranza di trovarci una moneta, ma soprattutto per non dover sopportare il muto oltraggio della gente ben coperta e soddisfatta della vita. Riflettevo, come Toby Veck, sul fatto che niente arriva con regolarità come l’ora di pranzo, ma niente è così irregolare come il pranzo stesso.
«Sono un essere vivente, un poveraccio che ha fame. La fame è una realtà tragica come la terra. Per tutti gli uomini», mi dicevo, «dovrebbe esserci modo di risolvere questo sgradevole affare del pranzo e della cena. Viviamo sulla terra, mica in cielo. Solo i puri spiriti non mangiano.»
Eppure, i vestiti mi davano più impaccio dello stomaco. La miseria di un piatto di zuppa la puoi nascondere; la miseria degli abiti no. Avevo una voglia matta di troncare ogni rapporto con il mio vestito e sognavo un’occasione per buttarlo via.
Alla Pignatta Misteriosa Indalecio concionava, ma le sue parole non suscitavano interesse nell’animo scettico degli altri avventori. Borsaiolo e Peluzzo Verde pagarono a tutti un bicchiere di vino rosso. Peluzzo Verde sputò rumorosamente, si stiracchiò e disse: «Chissà come mai a quest’ora mi torna sempre in mente la Cilena! Ormai non viene più da queste parti con quel suo cane vagabondo. Povera bestia! Viveva come noi, alla giornata, senza mangiare a ore fisse e sognando anche lui, come facciamo noi, un mondo meraviglioso dove i cani portano collari di salsiccia.»
«Io la Cilena l’ho conosciuta quando ancora non camminava», disse Borsaiolo. «Poi l’ho rivista quando non era più bambina, e ho capito che strada aveva preso. Quante ne ha fatte! Si prostituiva per pagare l’affitto. È sempre una cosa triste, ma è più onorevole che farlo in cambio di una collana di bigiotteria.»
Borsaiolo allungò le gambe più che poteva. Indalecio filosofeggiò: «Sono fatte tutte della stessa stoffa. A una troia non mancano mai le giustificazioni. Di’ pure le peggio cose, sarà sempre poco. A me pare che i sentimenti siano sprofondati in un vuoto tremendo. Amicizia? Amore? Balle. Nient’altro che balle! Non ho mai incontrato una donna che non mi abbia chiesto soldi. A chi non è capitato? Dillo tu, Silenzioso, diglielo a questi qua cosa pensi della vita!»
«Io nella vita non ci ho mai trovato niente di divertente», brontolò il Silenzioso.
La sua voce sembrava uscire da una cantina. Aveva la pelle di un colore terroso e gli occhi opachi, sbiaditi. Una volta, parlando della sua infanzia, disse con naturalezza: «La mia matrigna mi odiava. Per tanti anni è uscita di notte e mi lasciava chiuso in cantina con mio padre. Sei, sette, otto, nove, dieci, tredici. A tredici anni sono scappato per non vederla più.»
«Non ho mai trovato niente di divertente nella vita», ripeté il Silenzioso. E aggiunse: «Bah! Quando uno pensa che ci sarà il sole, piove a dirotto. Si vive a rovescio. Come niente, quando uno crede che tutto, il mondo e la salute, vada secondo i suoi desideri, gira l’angolo e trova la morte che lo afferra per la collottola e lo porta via come l’accalappiacani trascina il povero animale.»
«Quel che mi dà più fastidio è la diffidenza», disse Indalecio. «La diffidenza è una perversione sociale radicata nel genere umano. Tutti quanti sono diffidenti, compreso l’omino che sulla terra occupa il posto più misero.»
«Tu credi in Dio, Borsa?», chiese Peluzzo Verde, in tono ingenuo.
Borsaiolo fu sorpreso dalla domanda. Tentennò per un istante, poi, con un sorriso furbesco, rispose: «Non lo so se esiste o non esiste. Però ci credo. Se non esiste, pazienza: non avrò perso niente. Invece, se per caso esiste, andrò all’altro mondo con qualche titolo di merito.»
Bayar, il caricaturista da caffè concerto, si incontrava con alcuni letterati anonimi e deperiti in un angolo della Pignatta Misteriosa.
Bayar viveva poveramente sulla sua matita, con la quale non ottenne mai un successo. I letterati anonimi e deperiti tenevano sotto il braccio altrettanti malloppi di carta e si scambiavano in lettura noiosi parti letterari che uscivano alla luce solo per ripiombare immediatamente nell’oscurità. 


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