“Lettere dall’orlo del mondo” su l’Espresso
Con gli occhi degli artisti. Barbara Garlaschelli. Scrittura, sensualità, e rotelle.
Per me era inevitabile arrivare a Barbara Garlaschelli, una delle voci più limpide dello strano popolo delle carrozzine a rotelle. L’avevo conosciuta tramite Facebook, e tramite il sincero e esilarante libro scritto a quattro mani con Alessandra Sarchi, Sex & Disabled People edito da Papero Editore. Da lì a provare a dialogare con lei il passo è stato breve. Ho trovato una donna straripante di vita, un’anima viva, dalla voce roca e sensuale.
Chi è Barbara Garlaschelli?
Sono una scrittrice di 55 anni. Mi piace creare gioielli, dirigo un blog che si chiama Sdiario, che però non è un blog personale. Perché mi piace lavorare con le altre persone, con gli altri scrittori, noti e meno noti.
Qual è il tuo rapporto con il mondo delle case editrici?
Da anni c’è una crisi editoriale profonda, e non si stanno affrontando i problemi di questo mondo.
A causa del covid il 2020 è andato male. Le case editrice hanno continuato a buttar fuori libri come se non ci fosse un domani, con il risultato che tantissimi libri e tantissimi autori sono finiti nel nulla, poiché noi italiani non siamo un popolo di grandi lettori. Samo quelli che leggono meno in Europa.
La scrittura è un’arte, è un mestiere alto. Un autore non dovrebbe avere preoccupazioni sulle vendite, sugli uffici stampa. Un autore dovrebbe scrivere il suo romanzo, e poi la casa editrice dovrebbero fare il suo mestiere e fare arrivare il libro ai lettori. Questa cosa è da anni che non succede. Per cui moltissimi autori vendono poco rispetto a quanto si scrive. E scrivere un libro comporta una grande fatica. Inoltre, io dico che c’è chi fa lo scrittore e chi è scrittore.
Tu sei o fai?
Lo sono. Purtroppo credo di esserlo. Quindi soffro molto di questa situazione. Lo sono, anche perché non ho altri mestieri. Nel senso che ci sono tantissimi scrittori che fanno altro. Fanno un mestiere oltre a quello dello scrittore. Io invece “sono” una scrittrice, poiché il mio rapporto con la scrittura è totalizzante. Una volta vivevo il momento della pubblicazione in modo eccitante e sereno. Ora dico “Oddio. Adesso bisogna fare ufficio stampa, e tante parti che non riguardano il lavoro dello scrittore”.
Perché è così faticoso scrivere un libro? Perché c’è questa fatica quasi fisica?
C’è sicuramente una fatica fisica per tutti gli scrittori. Anche se non se ne parla spesso. Ricordo che Vincenzo Consolo ha scritto proprio sulla fatica che costa scrivere un libro. Quanto il corpo c’entri nella scrittura, perché sei seduto per tante ore, perché sei nella stessa posizione per tante ore. Poi uno scrive a mano, uno scrive direttamente al computer. Ma comunque anche il corpo, oltre che ovviamente la mente, è impegnato nel lavoro. Per me che sono tetraplegica e ho anche dei problemi respiratori, quindi o parlo o respiro, questa fatica la sento ancora di più.
Mi sono resa conto che io scrivo un po’ come respiro. Nel senso che spesso la mia scrittura assomiglia al ritmo del mio respiro. Perché ho bisogno di fermarmi, di fare delle pause, anche perché mi stanco proprio. E anche la scrittura prende questo ritmo.
Quindi lavori sulla parola scritta tenendo in considerazione questo tuo respiro.
Sì. Poi io sono una cesellatrice. Nel senso che prima di consegnare un mio dattiloscritto all’editore faccio un numero spropositato di correzioni di bozze. Tanto che a un certo punto l’editore dice “Basta! Garlaschelli dacci il libro. Che non ne possiamo più di fare giri di bozze”. In teoria dovrebbero essere massimo tre giri di bozze. Io non rileggo mai i miei libri perché sono terrorizzata dall’idea di trovare un refuso. Quando mi dicono che trovano un refuso io sto male. Anche perché poi penso che esistano le parole giuste per esprimere quello che vuoi. È quella. È quella parola lì. Noi abbiamo un vasto vocabolario, e se tu hai le idee chiare, se tu vuoi esprimere un concetto chiaro, un pensiero chiaro, un’azione del tuo personaggio chiara, le parole ci sono. Se poi tu non riesci a trovarle è un altro discorso. Però esistono. Mi sono resa conto anche di un’altra cosa. Io sono già un’autrice molto asciutta. Uso pochi aggettivi, sono molto all’osso. E più passano gli anni più mi rendo conto che quest’operazione di sottrarre, di sottrazione al testo, mi viene sempre più spontanea. Io continuo a levare, levare, levare, perché voglio arrivare a quello che per me è il pensiero, la frase perfetta.
Credo anche io che la scrittura e l’arte in generale debbano andare per sottrazione. Oscar Wilde diceva La semplicità è l’ultimo rifugio della complicazione. Credo che la semplicità sia un’arte molto sofisticata.
Sì, sì. vero, è assolutamente vero. Ad esempio io ho una scrittura apparentemente semplice, a differenza di tanti scrittori che magari amo moltissimo. Ad esempio Marquez ha un’esplosione, una sovrabbondanza, della scrittura. A parte l’uso di tutte le metafore ha una scrittura ricca, proprio fiorita. Questo è un po’ tipico dei Sud Americani. Non tutti, perché ad esempio c’è Osvaldo Soriano, che per me è stato un maestro, che invece lavorava un po’ come lavoro io, con una scrittura lineare e semplice. Ma dietro a questa tu riconosci quando una frase è semplice oppure è povera. Perché dietro a una frase semplice c’è un grande lavoro. Dietro a una frase povera c’è poco talento.
Come lavori nella fase di progettazione di un nuovo romanzo?
In modo sempre diverso. Quello che c’è sempre è che inizio a pensare prima di tutto ai personaggi. Questi ruotano nella mia testa per tantissimo tempo. Nel frattempo faccio altro, scrivo altro. Però questi personaggi rimangono nella mia testa e poi comincio a lavorare, a scrivere. Seguo una linea cronologica che va in avanti. Sono una freccia che punta in avanti, capitolo primo, secondo, terzo… Non è che poi torno indietro. Faccio pochissimi schemi. Li faccio quando si tratta di scrivere romanzi storici. Allora lì devi stare attenta alle date, a quello che è accaduto in un certo anno. Ad esempio Non ti voglio vicino, che poi è arrivato allo Strega, è un romanzo storico, e siccome la storia di fantasia è infilata nella storia, quella con la S maiuscola, una non si deve soltanto preoccupare di raccontare. In quel caso non puoi fare errori di date, o di avvenimenti, capitati in un giorno preciso, in un anno preciso. In altri romanzi vado molto di più a ruota libera, per cui mi lascio trascinare dalla corrente. Ad un certo punto i personaggi vanno dove vogliono loro. Tu hai l’idea di farli andare in una certa direzione, invece prendono un’altra strada perché nella scrittura tutto devo tornare. Se tu hai in mente una scena, ma quella scena lì non funziona, o tu o il personaggio devono cambiare.
Sono i personaggi che prendono per mano e guidano?
Sono entrambe le cose. Io dico che comunque a guidare è la credibilità. Tu puoi anche avere in testa un episodio realmente accaduto, che però non riesci a rendere in scrittura. Ricordo che Pontiggia, quando avevo fatto il corso di scrittura con lui, ci diceva “Non tutto quello che accade nella realtà può essere raccontato e scritto. Perché ci sono delle storie che non sono credibili”. Sembra molto strano eppure è vero. Ci sono dei fatti che sono fatti veri, ma nel momento in cui cominci a scriverli ti rendi conto che sulla carta perdono la loro credibilità.
Nella tua scrittura ci sono dei temi che prediligi?
I temi che prediligo sono gli ambiti familiari. A me piace molto raccontare le storie delle persone semplici e delle famiglie, tutto ciò che capita nelle famiglie. Perché è il luogo in cui accade tutto. Tutto il bene e tutto il male parte dalle famiglie, i rapporti tra figli e genitori, tra fratelli, il rapporto della famiglia con l’esterno. Poi sono molto attratta dalle figure femminili sempre un po’ al limite della follia. Per cui mi piace molto raccontare queste donne che poi nella vita ho anche conosciuto, un po’ borderline.
Che cos’è la disabilità secondo te?
La disabilità è tante cose. La disabilità oggettivamente è una gran rottura di palle. Non sono una di quelle persone che sostiene che stare su una sedia rotelle mi ha reso una persona migliore. Assolutamente. Col passare degli anni mi sono resa conto di che cosa ho perso. Faccio un discorso assolutamente individuale. Perché ogni disabile è disabile a modo suo. Io ho una disabilità molto grave, non riesco a muovere molte parti del mio corpo, nonostante non sia mai ferma, e nonostante riesca persino a imbrogliare i medici, che non credono mai che sia tetraplegica, ma bensì paraplegica. Invece ho una lesione alla quinta e sesta vertebra cervicale, per cui praticamente non riesco a muovere le dita per esempio, le braccia le muovo, non parliamo delle gambe che sono un mondo a sé. La disabilità però come tutte le occasioni della vita può essere vissuta in tanti modi. Io ho avuto la fortuna di avere dei genitori meravigliosi che non mi hanno mai abbandonata. Quando poi mi sono fatta male non mi hanno mai lasciata un momento. Ho avuto un padre con cui avevo un rapporto meraviglioso. Ci siamo amati moltissimo. Lui non mi permetteva assolutamente di cedere. Per cui dal giorno dell’incidente in avanti per me è stata una battaglia quotidiana per tentare di recuperare tutto quello che era possibile recuperare. Perché io volevo vivere la mia vita nel modo più pieno, più bello, più sereno possibile. E l’ho fatto. Avevo tra l’altro dei traguardi molto alti. Ho avuto l’incidente a quindici anni. Mi sono ritirata da scuola perché altrimenti il numero di assenze mi avrebbe fatta bocciare. I miei compagni venivano tutti i giorni in ospedale a farmi lezione, e i professori ad interrogarmi. Ho trascorso dieci mesi in ospedale, in parte a Milano e in parte ad Heidelberg. Perché allora in Italia non c’erano centri di riabilitazione come ci sono adesso, per esempio l’unità spinale del Niguarda a Milano. Per cui si veniva spediti all’estero. In Germania ho scoperto un altro mondo. Ho scoperto un altro modo per essere disabile. Ho scoperto la possibilità di non subire questa mancanza che comunque hai, per cui perdi capacità sensoriali, capacità motorie e devi ricominciare tutto da zero. Io ho dovuto reimparare a scrivere, a mangiare, a truccarmi. Ero in Germania a fare l’ergoterapia, e la prima cosa che ho voluto reimparare è stata mettermi lo smalto sulle unghie e truccarmi.
Cosa è successo dopo quei primi dieci mesi in ospedale?
Non ho perso l’anno, ho dato l’esame come privatista, sono rientrata a scuola, sono andata all’università, mi sono laureata. Il mio sogno è sempre stato quello di scrivere, di fare la scrittrice. E quello ho fatto. Io ho avuto una vita molto piena, molto intensa, molto faticosa. Non ho mai ceduto alla fatica, ai dolori. Mentre in questi ultimi tempi, anche per la situazione del covid, è da un anno che non esco di casa, perché non posso assolutamente ammalarmi. Già una bronchite mi mette in ginocchio conciandomi da sbattere via. Penso che non potrei sopravvivere al covid. Un anno che sono in casa e comincia ad essere pesante. Anche perché sono tanti gli anni che sono in sedia a rotelle.
Come ti sei confrontata, da giovane donna di quindici anni in carrozzina, con temi come sensualità, erotismo, desiderio?
Per almeno dieci anni non mi ci sono proprio misurata. Quando mi sono fatta male ho pensato che il mio essere donna era finito lì. Quindi per anni dal punto di vista sentimentale, sessuale, sono stata come un congelatore. Ero la confidente in tante persone, ma sembrava che l’argomento non mi toccasse. In realtà, e di questo me ne sono resa conto col tempo, era un aspetto che mi faceva molto soffrire. Mi spaventava molto. Però anche lì non volevo rinunciare a questa fetta di vita enorme. Tante cose non ho potuto farle, e non è che puoi recuperarle. Tante altre invece sì. Quindi ad un certo punto, verso i ventotto anni, ho deciso che non dovevo più avere paura dei no, che era poi quello che mi terrorizzava. Sentirmi respinta da un uomo avrebbe voluto dire che la sedia a rotelle sarebbe stata qualcosa che non sarei mai riuscita a superare, che sarei sempre stata vista come la donna sulla sedia a rotelle. In realtà poi ho scoperto la sedia rotelle ce l’avevo nella mia testa. Ovviamente sono seduta su una sedia rotelle. Ma quando mi sono creata un mondo dell’affettività, della sessualità, non dico che sia diventata libertina ma mi sono divertita molto. Questa è una mia caratteristica, o tutto o niente.
Complimenti.
Ho recuperato. È stata una reazione per alcuni anni persino esagerata. Poi non pensare a chissà che cosa abbia fatto, però avevo tanti uomini. Fidanzati non ne ho avuti perché non volevo legarmi assolutamente.
Quando sono uscita dalla clausura e dicevo “Voglio sapere dove eravate”, perché c’erano tanti uomini che mi vedevano come donna, a cui piacevo come donna, ricordo che soprattutto un amico mi disse “Guarda che noi ci siamo sempre stati. Eri tu che non c’eri”. Questa era una grande verità. Perché per me all’inizio non si poneva neanche il problema. Pensavo che sarei vissuta con i miei genitori per tutta la vita, e quando fossero morti loro, e io speravo di morire prima di loro, poi probabilmente avrei posto fine alla mia vita. Non concepivo di stare con nessun altro che con i miei, nonostante tutti gli amici. Invece la vita se decidi di lanciarti ti porta, ti trascina. A tal punto che quindici anni fa ho incontrato l’uomo che poi è diventato mio marito, e ho una vita bellissima con lui. E ho avuto anche una bellissima vita sentimentale e sessuale prima di lui.
Che scelta avete fatto?
Le cose nel suo lavoro non andavano benissimo. Quando sono arrivata io, che ho bisogno 24 ore su 24 di avere qualcuno accanto perché sono disabile al cento per cento, la strada era prendere un badante o una badante, in modo che lui potesse andare a lavorare. Lui ha detto “No. Perché tanto i soldi che guadagnerei andrebbero alla badante, ti curo io”. Ha un sorriso birichino mentre lo dice. È un misto di compiacimento e di gratitudine. Da parte sua è stata una scelta molto coraggiosa, e anche un po’ folle, che però ha funzionato.
Ho visto una foto una vostra fotografia in cui lui è alle tue spalle e ti abbraccia. È una fotografia che ispira gioia e complicità. Siete tutti e due belli. Lui è bellissimo.
Dico sempre che se non fosse stato così bello non sarebbe mio marito.
Hai buon gusto. È proprio un bell’uomo.
Sì. È proprio bello. Poi io sono fatta così. Ho sempre avuto fidanzati belli, amanti belli. Per me la bellezza è importante. Quando ho iniziato a pensare a me stessa sono diventata anche molto vanitosa. Io sono vanitosa e narcisa e, soprattutto in alcuni anni della mia vita, ho usato l’essere sulla sedia a rotelle. Adesso un po’ meno perché sono un po’ più vecchia. Siccome sapevo di essere guardata allora ho detto “Va bene. Se mi guardate allora guardate qualcosa di bello”. Nel senso che io mi sono sempre messa al meglio di quello che potevo. E questo mi ha sempre divertito molto, anche con gli uomini, perché mi piaceva spiazzarli, provocarli. Mi piace provocare la gente. Perché comunque è anche un modo per sdrammatizzare certe situazioni. Ho sempre presente che la persona che hai di fronte e non è su una sedia a rotelle si pone il problema di come porsi.
Penso che le persone intelligenti conservino sempre il gusto per la provocazione.
Sì. Perché è quello che ti fa superare il tuo imbarazzo e soprattutto fa superare l’imbarazzo dell’altro. Io mi sono sentita dire tante volte “Ci dimentichiamo che sei su una sedia rotelle”. Però bisogna stare attenti. Io lo dico sempre, e lo scrivo “Non dimenticatevi che siamo su una sedia a rotelle. Perché stare su una sedia a rotelle è una condizione difficile”.
Se sei una persona carismatica è facile che i tuoi interlocutori si dimentichino che sei in carrozzina.
Però bisogna ricordarlo. Soprattutto in questo paese, che non è assolutamente costruito per le persone disabili, che non è un paese per tutti, non solo per chi è su una sedia a rotelle, ma anche per chi ha una qualche difficoltà. Io mi ricordo che l’ultima volta che sono stata a Roma, città che adoro, non vedevo l’ora di tornare a casa. Le strade sembravano bombardate. Siamo un po’ incivili in questo senso.
Che cos’è per te la femminilità?
Femminilità è poter esprimere se stessi. Riconoscersi come donne, curarsi, mostrarsi e avere piena coscienza delle grandi possibilità e della bellezza dell’essere donna e dell’essere femmina.
Mi sembra di capire che donna e femmina per te non siano sinonimi.
Femmina è come se regolasse la parte animale della persona. Quando dico femmina esprimo la mia sensualità. Mentre l’essere donna è una condizione sociale, la parte femminile è come se fosse più privata. Ovviamente le due cose combaciano, perché non è che ti vivi scissa. Ti vivi come una persona completa. Io non sono stata completa finché non ho recuperato la mia femminilità. E non lo sono stata per molti anni. Perché come ti dicevo prima io non prendevo neanche in considerazione l’idea di poter piacere a un uomo, e non potevo prendere in considerazione l’idea di poter fare sesso. Come facevo con tutti i problemi che avevo. Non è facile.
Assolutamente. Ci vuole coraggio e determinazione. Nella tua vita c’è un prima e un dopo l’incidente. Che cosa ti aspettavi da questa seconda vita, che cosa hai trovato e che cosa non hai trovato?
Non sono riuscita a trovare l’autonomia. Ed è il mio dispiacere più grande non poter fare le cose da sola. Essermi fatta male così giovane da una parte mi ha dato una grande forza, perché comunque c’era anche molta incoscienza. In fondo avevo vissuto così poco che non sapevo quante cose perdevo. Farsi male ad un’età più adulta è diverso. Da una parte è orrendo che una ragazza di quindici anni debba passare quello che ho passato io. Dall’altra tu costruisci la tua vita su una sedia rotelle. Perché sei giovane, perché devi costruire tutto. In fin dei conti a quindici anni tutti devono costruire la propria vita.
Le racconto di me che sono diventato disabile a cinquanta due anni e sono in carrozzina da sette. Ci prendiamo un po’ in giro. Lei si sorprende per la mia voce giovanile quando dico che ho cinquantanove anni, che so di avere una bella voce e che spesso ci gioco. Lei ride, commenta con allegria la sua voce roca e sensuale, che spesso ha usato per sedurre. Continuo a chiedere.
Che cosa possono fare le persone disabili per promuovere una reale partecipazione alla vita sociale e politica del paese?
Esserci sempre, farsi sentire, in tutti i modi in cui è possibile. Io ad esempio scrivo, scrivo moltissimo di disabilità. Sono presente nella vita sociale, tranne l’anno scorso e un pezzo di quest’anno. Anche se ho scritto molto io dimostro on la mia presenza. Quando posso incontrare le persone questa per me è la cosa più bella, incontrare scuole, incontrare ragazzi, far vedere, dimostrare, che una persona con delle difficoltà più o meno grandi può avere una vita intensa, può avere una vita come la desidera. Senza poi raccontarsi delle storie, che è bello, che è facile. No. Vivere sulla sedia rotelle non è una bella cosa. Però sicuramente intanto la sedia rotelle è un aiuto e non impedisce di vivere. Chi si impedisce di vivere è chi sta solo con la sedia rotelle. La famiglia ha un ruolo fondamentale, la società ha un ruolo fondamentale. Purtroppo troppo spesso le famiglie sono abbandonate a se stesse. Io che mi sono fatta male tanti anni fa l’ho vissuto in modo particolare. A noi non ha aiutato nessuno, né da un punto psicologico né da altri punti di vista. A Milano poi ti passavano certe cose pratiche, ad esempio la sedia a rotelle, ma solo in un certo modo, e se tu la volevi e ne avevi bisogno in un altro dovevi pagartela. Milano è una città dove non ci si può muovere indipendentemente. Io mi ricordo che quando io e Giampaolo siamo stati a Madrid eravamo al settimo cielo perché potevamo andare in metropolitana da soli. Ed era una cosa straordinaria. A Milano sulla metropolitana me ne sono capitate di tutti colori. Su quello non riesco ad avere tantissime speranze. Ultimamente le cose sono un po’ cambiate, anche perché i disabili si fanno vedere di più. Però si fanno vedere di più perché sono tanto tosti. Io di solito domando “Ma voi vi siete mai chiesti perché vedete poca gente in carrozzina, mentre quando andate in Germania o in America ne vedete tanta?”. Non è difficile rispondere. In Italia ci sono le strade bombardate, mezzi pubblici che lasciamo perdere, tu dipendi sempre da qualcuno. Per prendere il treno e la metropolitana devi avvisare prima, ed è una cosa che mi faceva diventare pazza per cui ho deciso di non prenderli più e di andare sempre in giro in macchina. Devi avvisare prima a quale stazione scenderai. Questa cosa è umiliante, del dipendere dagli altri, dalle persone. Non è che ti trattino male. Ma perché io non posso muovermi liberamente e decidere che invece di scendere a Cadorna decido che scendo a piazza Duomo senza avvisare nessuno?
O cambiare idea all’ultimo momento mentre sei sul treno.
O cambiare idea all’ultimo momento. Perché io non posso prendere il treno? Io arrivo alla stazione, prendo il mio treno. No. Devo avvisare. In aereo uguale.
Abbiamo parlato di femminilità, di desiderio, di sessualità. Che cosa ne pensi della figura del lovegiver che si tenta di creare oggi in Italia?
Ho visto un film bellissimo dal titolo The session. Helen Hunt recita nel ruolo di un’infermiera specializzata in studi sociali, che fa sedute di sesso con le persone disabili. Non più di dieci per evitare coinvolgimenti emotivi e sentimentali. È la storia vera di un poeta che vive in un polmone di acciaio e su consiglio della sua terapista si rivolge a questa infermiera, perché non vuole morire vergine. In molti paesi ci sono uomini e donne che fanno questo mestiere. Qui in Italia chi fa delle grandi battaglie su questi temi è Max Ulivieri. Io personalmente quando ho scritto Non volevo morire vergine l’ho scritto non tanto perché volessi raccontare i fatti miei, ma perché non volevo assolutamente generalizzare. Perché tu non puoi generalizzare sui disabili come se fossimo una categoria. Però, volevo far sapere che le persone con disabilità hanno una vita sessuale. Non è che per forza poi ti devi sposare. Perché poi c’è anche questo. E le donne disabili hanno molta più difficoltà in questo senso.
Che rapporto hai con il tuo corpo?
Per un po’ l’ho avuto pessimo. Quando ero una ragazzina mi vedevo grassa e brutta. Quando mi sono fatta male peggio che andar di notte. Poi invece verso i venticinque anni la mia personale idea di bellezza è decisamente esplosa. Verso i trent’anni mi sono trovata ad essere una donna bellissima.
A livello sociale quali paure sta facendo emergere il covid?
Intanto la diffidenza verso l’altro, l’intolleranza. E poi un’aggressività inaspettata. Le persone sono aggressive perché hanno paura Alcuni dicevano che da una situazione così grave ne saremmo usciti migliori. No.
No. Non siamo usciti migliori da Auschwitz non usciremo migliori della pandemia.
Anzi, anzi. Io ho notato che questa è stata l’occasione di osservare un livello di atteggiamenti, di egoismi, di stupidità, molto preoccupante.
L’arte e il bello potranno aiutarci?
Mi piacerebbe tanto dirti di sì ma non lo so.
L’animale uomo non cambierà mai?
Temo di no. Io sono una persona realista, una che si guarda attorno. Quando mi sono fatta male non mi sono mai fatta grandi illusioni. Sì. Ho avuto grandi periodi di depressione, di tristezza. Però, ero una persona abbastanza equilibrata. In quest’ultimo periodo sento che l’equilibrio lo sto perdendo. Io sono una persona molto socievole che adesso non è socievole per niente, e che adesso sta soffrendo molto fisicamente, ma anche la mia mente sta soffrendo. Tra l’altro non riesco proprio a scrivere.
Non pensi che a livello sociale il grande fantasma che sta emergendo sia quello della morte?
Certamente.
Che rapporto hai con la morte?
Non ho mai smesso di pensarci fin da quando ero piccola. Il modo in cui ci penso dipende dai periodi. In questo periodo sento la morte attorno in senso molto negativo. Anche perché sono morte molte persone che conosco, una via l’altra. Probabilmente è una cosa che mi fa molta paura. Ho due modi per affrontare le cose. Una è riderci sopra per sdrammatizzare, l’ho fatto e lo faccio sempre. L’altro è scriverne. Non ho paura di morire. Ho molta paura della morte degli alti. Perché sono terrorizzata più che dalla morte dal dolore, dolore sia fisico che dell’anima. Il dolore può annientarti. In questo periodo sto patendo molto dolore fisico, e io sono una persona che ha un livello di sopportazione del dolore molto alto. Adesso in questi ultimi mesi sono stremata, stanca. Infatti mi sto curando. In questi ultimi mesi ho deciso che il dolore non lo voglio sopportare più. Ne ho provato troppo. La voce si fa mesta. Poi io sono fatta così. Ho tirato la corda finché la corda non si è rotta e il dolore è diventato cronico. A quel punto è diventato una malattia. Quindi mi sono rivolta alle terapie del dolore e la mia vita in questi ultimi tempi è cambiata. Ci sono dei giorni in cui c’è soltanto il dolore. Capisco bene quello di cui parla Barbara. Ci sono giorni in cui ti spremi come un limone al di là della carrozzina, del corpo che non ti segue, della respirazione che va per conto suo. Resisti. Resisti al dolore perché insegui tuoi desideri, le tue voglie, la tua creatività. Ma poi paghi un costo, anche pesante. Sì. Vivere in carrozzina è complicato. Ma vivere è un gioco a cui non rinuncerei per nulla al mondo. Intanto mi preparo a leggere il libro di Barbara Lettere dall’orlo del mondo, che uscirà in primavera in una nuova edizione per la collana SideKar di Arkadia Editore.
Gianfranco Falcone
Il link all’intervista su l’Espresso: https://bit.ly/3oOEhus