“L’erba di vento” su Repubblica Parma

Parole e dintorni

L’erba di vento, Marinette Pendola

Gli ulivi la guardano, mentre Marinette attraversa la strada che la riporta alla sua infanzia tunisina a Ouel el Kadra, in una casa di cui ormai non resta che un rudere. Un tempo fermo in quello scorcio di Tunisia che da bambina le appariva sconfinato, da dove si fermava ad ammirare la montagna che si staglia all’orizzonte, un gigantesco vecchio saggio con la pancia allungata che attraversa l’eternità nelle quiete del cielo turchino. Non pensava che se ne sarebbe mai andata da quei luoghi Marinette, non immaginava che potesse esistere una vita al di fuori di quei posti scelti dal suo bisnonno che lasciò Sciacca per partire con la sua famiglia sul finire dell’Ottocento.
Da bambina non sognava certo di lasciare quella casa tra gli ulivi dove correva intorno al tavolo, dove la sera con suo fratello si sedeva fuori a guardare le stelle e ad aspettare di vedere un satellite che attraversava il cielo, dove poteva capitare di portare il materasso fuori per dormire nelle notti più calde con la certezza che nulla avrebbe potuto sconvolgere la quiete imperturbabile di Ouel el Kadra. Scrittrice tunisina di origini siciliane, Marinette Pendola attua costantemente tentativi di distacco e di ritorno ai luoghi dell’infanzia nei suoi romanzi “La riva lontana”, Sellerio, “La traversata del deserto”, Arkadia, nelle immagini del corto Kif-Kif italiani di Tunisia (Progetto vento di Montalbano e Verruci), e nel suo ultimo romanzo “L’erba di vento“.
Le migrazioni sono movimenti sociali, sostiene il giornalista indipendente Fausto Giudice riflettendo sulla Tunisia post rivoluzione che ha osservato sin dal momento del suo ritorno nei luoghi d’infanzia. Pensa che ogni volta che un movimento sociale nel mondo porta una disfatta, una parte dei protagonisti sia costretta a scappare, o per delusione o perché non è riuscita a ottenere quel che voleva, e allora non rimane che andare altrove. Giudice sceglie di tornare nel quartiere de La Goulette, nei luoghi dell’infanzia tunisina che videro gli effetti dell’Unità d’Italia nello sguardo dei siciliani emigrati nel Paese, quando si diceva che non ci fosse più che dell’erba di dosso da mangiare e non restava che partire.
Anni in cui, davanti al potere politico francese, l’Italia cercava di avere un peso sociale, culturale ed economico per poi essere costretta a vedere migliaia di espulsi perché figli delle sconfitte militari. Gli stessi che solo decine di anni dopo, con l’autonomia interna della Tunisia e l’abrogazione del decreto, si sarebbero sentiti di nuovo liberi, famiglie intere che vivevano con la percezione di avere un’appartenenza mista, richiamata anzitutto dal loro dialetto siculo arabo. La ricerca incompiuta delle radici, la memoria, ciò che resta del tempo al di là di un cumulo di macerie e di quegli stessi ulivi che rimasero anche nella mente di Irene Cusmano, rende comune il sentimento dei luoghi nel raccontare un’infanzia tunisina a Enfida, vissuta all’ombra e in funzione di quelle piante di cui l’autrice conserva ancora la percezione dell’odore di sansa che impregnava l’aria durante la spremitura.
Un paese ibrido la Tunisia dei primi decenni del Novecento, ancora Africa e quasi Europa agli occhi di Irene Cusmano che, in “Memorie di Enfida”, racconta, attraverso la prospettiva delle famiglie emigrate dalla Sicilia, il ruolo della donna nella società di quel tempo e il peso dei luoghi nell’immaginario comune dell’infanzia. Cammina ancora tra gli stessi ulivi Marinette Pendola. Ma a differenza delle immagini poetiche di Cusmano, sceglie una pianta infestante per raccontare il sentimento dei suoi luoghi. L’ebba ‘o ventu, come è chiamata in siciliano la parietaria, era considerata utile come rimedio per ogni male fisico da chi sino ai primi decenni del Novecento si curava solo con le piante, anche se in realtà poteva essere efficace tutt’al più per lenire il gonfiore da un colpo subìto o per un arrossamento agli occhi.
L’erba di vento è la prima frase che la protagonista pronuncerà nel rispondere alla domanda di quello che sarebbe diventato suo marito, per poi ripiombare nei silenzi che predomineranno nella sua intera esistenza. L’uomo che entra non voluto nella sua vita rappresenta un’istituzione laica nella comunità siciliana dei primi del Novecento dove i guaritori di campagna erano ritenuti i detentori del dono di leggere nelle persone e di curare attraverso una ritualità tra il sacro e profano nel somministrare un rimedio che non potrebbe avere effetto se non accompagnato dalla recita di preghiere per giorni. Quella giovane ricamatrice protagonista de “L’erba di vento” vorrebbe pietrificare il presente, lontana non solo dall’idea del matrimonio ma anche dal pensiero, vissuto come insopportabile, di essere sfiorata da chiunque.
Per calarsi nella dimensione de “L’erba di vento” occorre soffermarsi sul contesto storico, sociale e culturale in cui è ambientato tra i luoghi della Sicilia e della Tunisia nei primi decenni del Novecento. Attraverso un romanzo di invenzione che richiama elementi da una storia quanto mai comune in quegli anni, Marinette Pendola riesce a mettere in luce le profonde affinità tra queste due realtà. A emergere con forza in ogni romanzo di Marinette Pendola è il peso che ha la memoria. Memoria che può passare anche attraverso l’immagine di un corredo da ricamare, capace di raccontare il destino che segna un’esistenza, e il gesto di rimandarlo i tentativi di sfuggirgli, la sua immagine impacchettata per la visita delle comari l’accettazione, seppur nella percezione della non appartenenza.
La storia di Angela è segnata da ciò che un corredo può rappresentare, lo spettro di ciò che si realizza, suo malgrado, nella sua vita. Nel tempo degli oltre vent’anni della narrazione, il lettore vivrà con la protagonista la sua crescita interiore dal momento in cui è poco più che un’adolescente che si affaccia all’età adulta a quando prenderà piena consapevolezza della propria identità di donna, in un percorso difficile e sofferto, sullo sfondo dell’emigrazione clandestina e della guerra.
Una narrazione piatta e lineare solo all’apparenza, che non solo è perfettamente tornita sulla protagonista, ma che si rivela fondamentale anche nella sua struttura per fare emergere la complessità emotiva e intellettuale dell’io narrante. Quel fluire unico in prima persona che non cambia mai prospettiva, lontano da giochi temporali e spaziali che sembrano ormai condizione imprescindibile nel romanzo italiano contemporaneo per rendere la profondità dei protagonisti, porta finalmente il lettore davanti a un’essenzialità narrativa e strutturale.
Risiede proprio in questa purezza sapientemente costruita la condizione indispensabile per calarsi nei pensieri dell’io narrante attraverso quelle che sembrano essere pagine di diario di chi cerca affannosamente di ricucire i brandelli di un discorso interiore, come insegna Annie Ernaux. La scrittura di Marinette Pendola si posa sui pensieri della sua protagonista raccontando l’inquietudine e il senso di alienazione attraverso immagini fatte di parole, come un abito da sposa il giorno prima del matrimonio negli occhi chiusi di una sposa sveglia che si impone di non vedere. Immagini di riti che assumono connotati grotteschi perché legati a una scelta non voluta, la benlevata per mostrare al paese il lenzuolo di nozze insanguinato e l’immagine stessa di un corredo confezionato e esposto per la visita delle comari, impacchettando e esibendo il dolore della farsa. Momenti vissuti con la percezione di non sentirli propri cercando di renderli evanescenti nella memoria con l’illusione vana di poterli, così, annullare dall’esistenza.
Anche la guerra può assumere contorni inverosimili, quella che Angela sente come una favola che piomba addosso alle loro vite. Una guerra raccontata non negli esiti della sua devastazione ma nel terrore della sua attesa, al tempo stesso a livello individuale, negli sconvolgimenti generati nella vita della protagonista con la fuga di una famiglia italiana dalle idee socialiste e, a livello sociale, nel modo in cui è vissuta dagli italiani che si trovano in Tunisia. È raccontata nel mito perduto di Mussolini, nel modo di convivere insieme tra famiglie dividendosi tra uomini e donne, nel terrore delle donne di subire violenze, nel gesto istintivo di un’anziana nel coprirsi il capo con un cuscino ogni volta che sente il rombo di un aereo, nel modo inconsapevole dei bambini di scherzare sulle bombe, nei tentativi di guadagnarsi da mangiare facendo il bucato agli ufficiali.
In un quadro simile, la profondità della scrittura di Marinette Pendola permette al lettore di compiere da un lato una profonda riflessione sulla condizione femminile dei primi del Novecento e sul ruolo della donna nella società di quegli anni e, al tempo stesso, di percorrere assieme alla protagonista quel percorso interiore che parte con l’accettazione, che non sfocia mai in rassegnazione, di una condizione non voluta nel dover ricalcare quel ruolo che la società ha disegnato per lei. Come poter trovare una forma di emancipazione da un ruolo che si percepisce di non vivere come proprio in un contesto sociale che attanaglia l’individuo? Forse, imparerà presto Angela, l’unica strada potrà essere solo la solitudine, l’unica via per ritrovarsi e trascorrere giornate intere piene solo di sé, l’unica vera emancipazione, come per la protagonista di Irmgard Keun, “Gilgi una di noi“, L’orma. Angela affronta l’esistenza con la percezione di vivere costantemente su un campo di battaglia sentendo il dovere di lottare per la vittoria, ecco perché in fondo si tratta di una fragilità solo apparente, che per essere compresa dal lettore non può prescindere dalla conoscenza del contesto storico e sociale a cui è legata.
Marinette Pendola racconta la solitudine di una donna come unica condizione che si avvicini a un’idea di felicità, una figura che vaga apparentemente senza meta ma che impara a vivere il proprio destino non come qualcosa di inesorabilmente scritto dalla nascita, come crede Mastro Filippo, ma come una scusa dietro cui trincerarsi per non cambiare lo stato delle cose. Quel corredo che suo malgrado dovrà ricamare per sé stessa rappresenta sin dalle prime pagine la sorte da cui non potrà esimersi. Anche Bachisio Bandinu ne “Il cammino lento dell’ombra”, Il Maestrale, lega la sorte all’immagine del corredo, definendolo “l’impresa che propiziava un luminoso destino”. Ecco che allora la descrizione di un luogo in un romanzo come “L’erba di vento” non può essere ridotta alla contestualizzazione di una storia dei primi del Novecento, ma va persino al di sopra della scelta di accentuare le profonde affinità tra due culture avvicinate da eventi sociali e politici.
I luoghi, ancor prima di connotazioni di qualsiasi altro tipo, qui raccontano il peso privato che alcuni posti riescono ad avere per una donna che cerca di portare avanti la propria battaglia per una sopravvivenza emotiva. Ci sono state stanze come prigioni, e il mondo intero una prigione, pensa il Leopardi protagonista del romanzo di Massimiliano Timpano, “La vita, se altro si dice”, Bompiani, e in fondo è ciò che prova la protagonista de “L’erba di vento”, che porta avanti un’esistenza tormentata nell’illusione di riuscire a fuggire a quella condanna cercando altrove altre stanze al di là di quelle prigioni, per poi capire di poterle trovare solo nei suoi luoghi, quelli che le appartengono da sempre in fondo, come quello di Oued el Khadra.
Angela si siede ancora una volta per terra in quello stesso punto, dove sa di poter vedere il Monte di Zaghouan e sentirsi realmente in pace, dove vivere con la percezione che solo in solitudine ogni dolore potrà abbandonarla. Dopo vent’anni può anche accadere che sia quel monte a guardare lei, e magari a raccontarle una nuova storia. Quello stesso “vecchio saggio che attraversa l’eternità nella quiete del cielo turchino” che continua a vedere Marinette tornare a casa ancora una volta.

Alice Pisu


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