Le figlie dell’uomo
Oslo, gennaio 2050
Svein Olsen staccò gli occhi dallo spartito per vagare con lo sguardo dalla finestra dello studio.
Dal terzo piano, al di là del canale, la straordinaria struttura del Teatro dell’Opera dominava l’orizzonte.
L’ultimo accordo risuonò nella stanza. Le mani lasciarono la tastiera del pianoforte con un certo molle abbandono. La mente girava a vuoto, insistentemente fissa sul movimento che aveva appena composto.
No, non c’era ancora. Non era quello il tema giusto per il balletto a cui stava lavorando da quasi un anno. Il resto andava bene. L’ouverture, il tema principale e quello secondario che si intrecciavano, i sottili fili musicali sapientemente intessuti in attesa del finale.
Era quello che mancava. Un finale degno, epico e commovente. Capace di fare piangere il pubblico ed estasiare i musicofili. Il suo ultimo lavoro. Il suo capolavoro.
La musica che aveva composto era suonata e apprezzata ovunque. Tutti i grandi teatri aspettavano la sua ultima creazione per applaudirla e celebrarlo come il più grande compositore del secolo. Ma, pensò alzandosi dallo sgabello, ancora mancava qualcosa. L’ispirazione non era più quella di un tempo.
Da giovane aveva tenuto con il fiato sospeso vastissime platee. Adesso era solo un vecchio che cercava a malapena di restare al passo con se stesso.
Aprì la grande porta a vetri e uscì sul terrazzo. Il vento si era placato e un pallido tramonto illuminava gli edifici lontani. La sua città, da qualche tempo preda di un’inquietudine oscura e stravolgente. La sera prima, rientrando nell’appartamento, aveva distrattamente acceso la TV mentre le sirene delle ambulanze urlavano nella strada, attraversando le mura del caseggiato.
Il notiziario stava ancora diffondendo le stesse notizie dei giorni precedenti: «… dell’Interno invita tutti i cittadini a non uscire se non per gravi motivi e a non frequentare luoghi affollati fino a quando la situazione non sarà rientrata nella normalità. Segnalazioni di nuovi focolai sono state diramate dalle agenzie svedesi. Anche in Finlandia…»
Per lui, non erano altro che notizie che vagavano nell’etere. Da tempo disdegnava la compagnia degli altri esseri umani che trovava perlopiù inutili e volgari. Non si era mai sposato se non con la sua arte. Quell’arte che ora lo stava tradendo.
Cercò, nel freddo autunnale della terrazza, uno stimolo per la sua ispirazione. Un ultimo sguardo verso il fiume che si stava orlando delle luci dei lampioni, poi rientrò rapidamente, lasciando le ante della finestra semiaperte. Lasciò fuori il mondo e si rimise al piano.
Posò la mano destra sulla tastiera del suo Steinway a coda e… un violento dolore alla testa gli tolse il fiato e la forza dalle braccia. Vacillò e cadde dallo sgabello. Un dolore terribile, simile a uno smembramento. Durò pochi atroci secondi. Poi di colpo cessò.
Non fece in tempo a respirare che ebbe l’intuizione. Le note, la musica che cercava da tanto tempo. Era Dio.
Ora poteva completare l’opera immortale che aveva sognato. Si rialzò, pervaso da un furore creativo che gli era sconosciuto. Ma che cosa aveva scritto fino ad allora? Cos’erano quelle misere pagine di musica sul suo leggio? Via, via!
Un’opera nuova si era manifestata al suo intelletto direttamente dall’Empireo. Senza neanche suonare una nota, si buttò forsennatamente sulle risme di carta da musica intatta che si trovavano in attesa sul pianoforte, vergando note come fossero lettere di un poema, gettandosi nella composizione con ardore divino.
Quando entrarono per portargli la cena come avevano sempre fatto in quegli ultimi anni, i domestici lo trovarono così, riverso tra le sue carte scompaginate, in una stanza alla mercé del vento che si era alzato furioso sul far della sera. Il corpo coperto da striature rossastre e un sorriso estatico sul volto.