L’artista più grande del mondo
Volevo scrivere questo libro come un qualsiasi scrittore, come lo scrittore che ero, ma non riuscivo a sopportare il dolore alla schiena. La versione che state leggendo è quella di una macchina, che ho fatto costruire per adattare il mio linguaggio parlato a una trascrizione di cui possa fidarmi. Registra soltanto la mia voce, che soltanto la mia voce può correggere o cancellare.
Dapprima sentii un brivido alla spina dorsale, come se dei fulmini simultanei la colpissero in più punti, poi una rigidità diffusa dai fianchi fino alla nuca, che paralizzò le braccia e le dita che usavo per scrivere, non tutte.
Gli antidolorifici funzionavano solo a dosi molto elevate e sospendevano il problema per aggravarlo più tardi, quindi li abbandoni, il che significa che tornai a sentire il dolore. Dalle quattro o cinque ore quotidiane che ho dedicato alla letteratura per diversi anni della mia vita, passai a un’ora, mezzora, e poi, nel giro di una settimana, venti, quindici e infine cinque minuti. La mia scrittura era pessima. Non riuscivo nemmeno a immaginare una frase completa che già dovevo abbandonarla. Quando mi rimettevo a lavoro, di solito il giorno successivo, mi risultava impossibile ricordare o capire ciò che avevo voluto dire. Il filo si era interrotto. Mi dicevo che, se non riuscivo a ricordare, dovevo pensare, pensare, pensare… Ma non si trattava di elaborare un nuovo pensiero, cosa che può fare anche un malato di Alzheimer, bensì di riprendere il pensiero dimenticato.
Nel romanzo c’è una “vita” che deve andare avanti (e chiarisco che la parola “vita” apparirà tra virgolette nella trascrizione, perché la macchina ha una funzione che percepisce le sottolineature ironiche della mia voce), ma per andare avanti è necessario ricordare, e io non ci riuscivo. Le mie aggiunte erano sempre più precarie e, infine, così brevi che mi sedevo e mi alzavo dalla scrivania senza aver scritto neppure una parola.
Non avrei mai immaginato, quando ero uno scrittore sano, che il lavoro di romanziere comportasse uno sforzo fisico di tensione del collo, crampi alle gambe e lombalgia irradiata per i quali, come gli atleti olimpionici, bisogna prepararsi. Mi pento di aver sfottuto gli scrittori che si allenano prima di sedersi a scrivere. Ho deriso Hemingway perché scriveva in piedi. In realtà lo deridevo perché scriveva in piedi ma cacciava da seduto: cacciava come uno scrittore e scriveva come un cacciatore. E ho riso di gusto quando ho letto un’intervista a John Irving, in cui parlava di addominali, piegamenti, pesi, stretching e, laggiù, nell’angolo più scuro della conversazione, lasciava cadere le parole “Flaubert” e “Joyce”, come se fossero due escrementi. Per non parlare del disgusto che provai quando vidi Roberto Saravia passeggiare per una strada pedonale di Rosario, durante uno dei suoi viaggi per assistere a un congresso di letteratura che ebbi la sfortuna di condividere con lui. Lo vidi mano nella mano con una grassa ammiratrice, camminava a passi molto brevi, annuendo come un cieco e, cosa ancora più sgradevole, muovendo rapidamente le sue piccole braccia, così corte da farmi pensare che non si trattasse del corpo di un fido frequentatore di palestre, come vorrebbe farci credere, ma di uno scrittore mutante.
Penso che i romanzieri del futuro saranno così: bassi, con la testa grossa, taciturni, corti di braccia e senza articolazioni o bicipiti; forse con mani a tre dita e senza gambe; avranno la forma di una sedia, le cui ruote dovranno essere rinforzate per poter uscire in strada e collegarsi al mondo al solo scopo di travisarne gli avvenimenti. E saranno pessimi scrittori (la letteratura sarà in futuro un tipo di giornalismo impopolare, un giornalismo scritto da persone incompetenti e sconosciute).
Cercai di migliorare la situazione cambiando abitudini e posizioni. Mi sottoposi a sedute di kinesiologia, magnetoterapia, ultrasuoni, osteopatia e chiropratica, e a innumerevoli controlli presso il Centro Argentino di Biomedicina, dove mi dissero «Niente da fare». Poi accettai il consiglio di un collega e acquistai una sedia Tamal, che offre punti di appoggio nelle zone di maggior carico del corpo; feci pilates alle sei del mattino (nel cosiddetto “turno delle vecchie”) e comprai una enorme palla per sedermi sopra, ma mi sbilanciavo sui lati e all’indietro ogni volta che il baricentro si spostava di un centimetro; provai a scrivere su una base di silicone in un leggio progettato e realizzato dal mio amico Esteban Krause, il famoso scultore che da anni vive nel Penedès, e che ha trionfato alla Fiera del Design di Milano, alla Documenta di Kassel e in altri luoghi. La domanda è «Dove non ha trionfato Krause?». Ma i piedi mi si gonfiavano come palloncini e mi feci fare un’imbracatura in cui riuscii a scrivere non più di due paragrafi, praticamente appeso alle rastrelliere del capannone degli attrezzi, con il rischio di schiantarmi sul cemento se le pulegge o i blocchi della struttura rotante, progettata per non mantenere una posizione fissa, avessero ceduto.
Mi fu consigliata una dieta a base di latticini per accumulare calcio, ma per assimilarlo dovevo prendere il sole. Pensando che la convalescenza sarebbe stata più rapida, bevevo tre o quattro litri di latte al giorno, e mi allungavo su una sedia a sdraio tra le due e le cinque del pomeriggio (nei giorni nuvolosi usavo una lampada abbronzante), il che mi procurava ulcere, macchie sul viso, ingrigimento e disidratazione. Quando constatai che non c’erano miglioramenti, decisi di provare questa macchina, imponendo alcune condizioni, come la messa a punto di un sistema di password inviolabile e il veto alla possibilità che uno dei suoi programmi correggesse le dettature sulla base di una qualsiasi istituzione della lingua spagnola.
Fui molto chiaro. Se non potevo scriverlo con le mani, volevo fare un libro direttamente con la mia voce, con la sporcizia della lingua parlata, i suoi slittamenti e la sua insensatezza; una lingua inconscia, se così si può dire. I miei lavori precedenti erano sin troppo corretti (so che in certi ambienti mi chiamano “il correttore”: che mi facciano un bel pompino), vista la sfortuna di essere uno scrittore senza scrittura, per non approfittare della possibilità che l’esperienza letteraria fosse davvero organica. Così introdussi nella macchina il mio linguaggio personale che, esista o meno, è parte della mia opera. In tutto ci sono quattordicimila parole che considero “mie”, ottomila in meno rispetto al Don Chisciotte, e mi sorprese venire a sapere che quelle che usavo di più, oltre alle preposizioni, ai nomi propri e ai pronomi, erano “pampa” e “città”.