L’arte della tessitura. Un sapere antico giunto fino ad oggi

da: La Nuova Sardegna
La Nuova Sardegna
11.06.2010

Oggi si usa il termine “filiera” per indicare il percorso che una materia prima compie per arrivare, attraverso lavorazioni e tappe talvolta molto lunghe, a prodotto finito.  Un tempo c’erano invece, anche nella civiltà tradizionale della Sardegna, delle filiere brevi e brevissime, che si risolvevano nel giro di pochi chilometri e all’interno della famiglia. La prima che viene alla mente è quella del pane: il marito, una volta prodotto il grano, lo consegnava alla moglie che, senza farlo uscire dall’ambito domestico, lo sapeva trasformare non solo in diversi tipi di pane ma anche in varietà di dolci e di paste alimentari.  Un percorso analogo seguivano le fibre vegetali e animali: il lino coltivato nei campi e la lana ricavata dalla tosatura del gregge divenivano, una volta affidati alle mani sapienti delle donne, dapprima filati e poi tessuti per i più vari usi, e talvolta indumenti per la vita quotidiana e le ricorrenze festive.  A un quadro così articolato, che è in parte ancora vivo e vitale, è dedicato il nono volume della collana “Antichi mestieri e saperi della Sardegna” edita dalla “Nuova”: si intitola «La tessitura: dal telaio alla cestineria» e sarà in vendita a partire da domani insieme con il giornale (144 pagine, euro 7,90).  La prima parte, che segue all’introduzione di Barbara Fois, mette a fuoco il lavoro delle donne: i diversi capitoli, firmati da Alberto Caoci, Felice Tiragallo e Roberto Coroneo, si soffermano sulla cardatura e filatura della lana, la laboriosa preparazione dell’ordito, il telaio e le tecniche della tessitura, la coloritura delle fibre con sostanze naturali; e infine su un tessuto del tutto particolare, di origini antichissime, quello ottenuto dal bisso prodotto in mare dalle nacchere.  La seconda parte è dedicata alla produzione della seta che in passato, distribuita in varie località dell’isola, alimentava la speranza di raggiungere qualità e quantità paragonabili a quelle che si registravano in regioni come la Lombradia. Oggi è praticata solo a Orgosolo, da una sola famiglia, e ha come unica finalità la produzione de «su lionzu», il fazzoletto dal vivace colore giallo-oro (ottenuto con lo zafferano) che contraddistingue il costume femminile.  Alla confezione dei costumi è dedicata tutta la parte successiva, con capitoli anche sul ricamo; ne segue un’altra sugli artigiani specializzati del settore, soprattutto i sarti; ma tratta anche del funzionamento delle gualchiere, nelle quali i tessuti venivano compattati e ammorbiditi.  Il volume si chiude con la sezione dedicata a un altro genere di lavorazione, quello che, integrando ancora una volta il lavoro maschile di raccolta delle fibre nei campi con quello femminile in ambito domestico, porta alla confezione di cesti e altri oggetti utili o semplicemente ornamentali.  Lungo il corso del volume i nomi degli autori delle singole parti non sono riportati. L’intento è probabilmente quello di sottolineare che, per quanto derivanti da mani diverse, i singoli “pezzi” si fondono in un discorso unitario. E questa è in effetti l’impressione che riporta il lettore.  I nomi degli autori compaiono comunque nell’indice e tornano, in chiusura, accompagnati da schede biografiche. A questo volume hanno lavorato, oltre a quelli già citati, Gino Camboni, Franca Rosa Contu, Assunta Lasio, Maria Iosé Meloni, Riccardo Mostallino Murgia e Paola Pellegrino.  Le foto impiegate per il ricco apparato iconografico provengono per la maggior parte dagli archivi dell’editrice Arkadia e di Gian Carlo Deidda. – Salvatore Tola


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