L’amico incauto di Raskolnikov
Capitolo 1
«Il bicchiere bianco porta fortuna quando è riempito di vino rosso!», vado esclamando in diverse tonalità tendenti al serioso, mentre guido allegro, con il sole in faccia, in una giornata invernale che regala luce greca, nitida e gialleggiante, a ristabilire le distanze naturali tra la collina, il mare e la costa.
L’esercizio ha luogo per ascoltare la mia voce e appurare, attraverso il timbro, di aver completamente smaltito l’indicibile sbornia della sera precedente. Farei bene a darmi una regolata e a non lasciarmi andare a serate da simposio solitario, come l’ultima, appunto, d’inaudita indecenza.
Dovrei approfittare di più della bellezza naturale che mi circonda. Nutrirmene quotidianamente, cercando di uniformarmi a questo luogo dell’anima, dove la storia ha lasciato impronte tanto significative che per viverlo nella sua pienezza basta seguire un percorso tracciato dalla mente.
D’altronde, mi pare ovvio che la mia terra, pur essendo così visibile ed esistente, sia raggiungibile solo idealmente. Diversamente, essa appare troppo distante, avvolta nel suo fascino storico e nell’interesse scientifico dei cultori dell’antichità. Pertanto, mi avverto, talvolta, come una coscienza predisposta a registrare esperienze che provengono da una realtà immaginifica, da cui prendono origini vicissitudini innaturali, contemplate dal ricordo.
Mi piace credere che il pensiero più abissale e sconfinato dell’individuo, vagando per i monumenti che ci hanno lasciato gli antichi padri, venga catturato da esistenze eteree, le cui presenze si rivelano apparizioni fatali. Ho sempre sognato di incontrare la dea, il nume tutelare del tempio più grande del luogo, che, per uno strano vezzo, ho finito per credere sovrintenda alla mia vita.
E nella notte appena trascorsa a trastullarmi in una sorta di giocoso autocompiacimento, ho declamato versi in suo onore, fatto pensieri non proprio lineari e riempito di continuo il calice, in cristallo finissimo, di Aglianico del posto.
Avverto di essere del tutto sobrio quando mi ritrovo a dare un’occhiata all’orologio: mezzogiorno e trentacinque! Sono in ritardo, per fortuna di solo cinque minuti. Ritengo che non presentarsi con puntualità a un appuntamento, a prescindere da chi ci attende, sia una pessima forma di scortesia.