“L’ambasciatore delle foreste” su Altervista
“L’ambasciatore delle foreste” di Paolo Ciampi
Sinossi
Poco importa che si tratti di catastrofi che riguardano tutti, ogni volta che sente parlare di ambiente l’autore comincia a sbadigliare, preso dalla noia. A molti succede così. Un giorno un collega gli regala un libro che parla di tale George Perkins Marsh, primo ambasciatore in Italia degli Stati Uniti, nominato da Abramo Lincoln. Fa le fotocopie, le mette via, solo dieci anni più tardi capisce di chi si tratta: è l’uomo che, nel secolo del progresso e dell’industria, prima ancora che esista la stessa parola ecologia, capisce cosa sta succedendo al mondo. Il primo che parla di cambiamenti climatici e di foreste da salvare. Ne nasce un viaggio dalle foreste del New England alle foreste del nostro Appennino, passando per i deserti dell’Africa. Ma soprattutto comincia un viaggio intorno a una persona dimenticata – pensare che dall’altro lato dell’Atlantico Marsh è considerato il padre di parchi come Yellowstone – che ci regala un nuovo sguardo sugli alberi, sulle montagne, sulla stessa nostra civiltà. Non c’è più noia, con questo personaggio stravagante, che frequenta a malincuore la corte dei Savoia, ma si appassiona alle saghe di Islanda e coltiva l’idea di portare i cammelli nelle praterie degli Stati Uniti. E chi è che parla, alla fine? L’autore o l’ambasciatore delle foreste?
Recensione
L’ambasciatore delle foreste è un libro di Paolo Ciampi edito da Arkadia edizioni. Il titolo evoca boschi, natura, ambiente. Esatto. Un personaggio che comprende l’importanza della tutela dell’ecosistema terra e che se ne fa portavoce. Esatto. Una serie di ammonimenti apocalittici sul futuro del pianeta e un noioso elenco di disastri ambientali compiuti o prossimi. Niente di più sbagliato. No, in questa opera c’è la vita di un uomo. Quella di George Perkins Marsh. Molti di voi si chiederanno: «E chi è?» Giusto! Me lo sono chiesto anch’io. Nonostante sia stato un importante intellettuale e il primo ecologista americano molto noto al di là dell’Atlantico, in Europa il suo nome naviga nelle placide acque dell’oblio. Praticamente un emerito sconosciuto. Eccetto per alcuni addetti ai lavori. Allora perché Paolo Ciampi ha voluto raccontare di questo personaggio? Perché a George si può volere solamente bene. Perché fu un uomo che nella sua non ordinaria normalità divenne eccezionale. Nacque nel 1801 in Vermont, nella piccola cittadina di Woodstock ai piedi dei monti Appalachi. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra prati e boschi, quando non era immerso nei libri: la sua grande passione. Un po’ cagionevole di salute. Curioso. Attratto da cose strane: «Quanti di noi si metterebbero a studiare lingue arcaiche scandinave?» Certo un po’ dispersivo. Ma sono queste le caratteristiche che ce lo faranno amare. Si laureò in giurisprudenza. Fu un buon avvocato. Tuttavia l’attività forense non era per lui. Troppo strutturata. Troppo noiosa. Dopo un po’ non gli procurò più stimoli. Aveva fame di novità, di conoscenza. Si buttò nel mondo degli affari, ma come per magia tutto ciò su cui investiva si tramutava in un fallimento. Riuscì a perdere una fortuna acquistando quote di una compagnia di ferrovie quando tutte le altre del settore volavano. Il business non era certo per lui. E anche questo ce lo fa sentire vicino. Un po’ sfortunato come noi. Si sposò. Ebbe due figli. Nel giro di poco tempo morì la moglie e il primogenito. Un duro colpo. Un gancio che lo centrò all’improvviso. Ma George seppe rialzarsi. Il gracile giovane di un tempo, anche se provato, anche se con la schiena un po’ piegata e qualche cicatrice, dimostrò di essere un vero uomo. Si buttò in politica. Tra studi stravaganti e fughe in mezzo alla natura appena poteva, riuscì a farsi eleggere al Congresso degli Stati Uniti. Ebbene sì! Fu membro del Congresso. Tuttavia anche questa non era la sua strada. Aveva le doti, le capacità. Era un uomo onesto, stimato. Avrebbe potuto crescere ancora, ma non si trovava nel ruolo. La politica lo annoiava. Soprattutto lo irritavano le sue dinamiche. Le percepiva aliene al proprio essere. Un mondo artificiale, finto, a volte ipocrita. Lontano dalla vera gioia. La vanità appagata non compensava la perdita della libertà, dell’entusiasmo per la vita, per la scoperta. A questo punto George ci ha conquistati. Si risposa. Gli si presenta un’opportunità come ambasciatore a Istanbul. Prende la palla al balzo. Finalmente il viaggio. Forse più tempo a disposizione. L’incontro con il diverso, con la storia. Tra un impegno diplomatico e l’altro, visitò il Mar Rosso, la penisola del Sinai, la Terra Santa, Petra. Fu conquistato dal fascino del deserto. Richiamato negli Stati Uniti, non la prese bene. Altri investimenti sbagliati gli procurarono ingenti debiti. Non si demoralizzò. Lottò e riusci in qualche modo a estinguerli. Ma George era un personaggio sopra le righe. Un uomo che riusciva a divenire straordinario nel suo desiderio di normalità e tranquillità. Quindi, come non provare a importare cammelli in America, dopo averli studiati e aver capito che si sarebbero adattati perfettamente alle zone desertiche del West? «State sorridendo?» Lui era così. Per lui questa era la normalità. Per molti sarebbe rimasta un’idea strampalata. Per George no. Riusci a convincere il Congresso a procurasi un certo numero di questi animali e a farli lavorare nelle miniere del Nevada. Alla vigilia della Guerra di secessione fu nominato ambasciatore del neonato Stato Italiano. Riattraversò l’Atlantico. A Torino lo attendeva una nuova vita. Una vita più vicina a quella che aveva sempre sognato. Qui, intrecciò rapporti con personaggi storici di rilievo come Vittorio Emanuele II, Ricasoli, Garibaldi di cui fu estimatore. Tentò di convincerlo a raggiungere l’America per prendere il comando delle truppe unioniste. E quasi ci riuscì! Ma l’incontro più importante lo fece con le Alpi, con le loro valli, le loro foreste. Lì, in quella natura forte e incontaminata, George trovava la forza per svolgere i suoi incarichi di diplomatico. Quando la capitale si spostò a Firenze, il dolore per il distacco dalle loro cime fu lenito solo con difficoltà dalle escursioni sugli Appennini. Nel dipanarsi del racconto, avvertiamo come Paolo Ciampi si affezioni sempre più a George. Come entri in una profonda empatia con lui. Non è interessato tanto all’opera dello studioso ecologista, ma piuttosto alla sua vita, ai suoi sentimenti, alle dinamiche interiori che lo portarono a capire che nella natura l’uomo trova la salvezza, la gioia, i significati profondi. Un Paolo Ciampi che si immedesimerà talmente in George da divenirne l’alter ego. In alcuni momenti autore e personaggio sembrano sovrapporsi nelle riflessioni. Sì, anche Paolo entra nell’opera. Lo vedremo prendere la bicicletta e sfrecciare verso la casa di Firenze dove abitò l’ambasciatore, oppure sostare accanto al portone di quella di Torino immaginandoselo affacciato alla finestra a mirare le Alpi. Lo sorprenderemo, mentre scrive al PC, voltare lo sguardo verso una foto di George, allungare una mano e accarezzare la sua immagine. Si, perché Paolo e George sono simili per tante cose e sembra che strane coincidenze abbiano tessuto trame per farli incontrare in un mondo di mezzo al di là del tempo e dello spazio. L’autore con una scrittura scorrevole, non ingessata, ci conduce a ripercorrere le vicende del protagonista, del periodo storico in cui visse, ma soprattutto ci comunica amore per la vita, la libertà e la natura. Una struttura del testo dinamica, dove flussi di coscienza ci catapultano dal passato al presente, da George a Paolo, da riflessioni a fatti contingenti. Un libro che celebra nel modo migliore l’opera di un grande uomo che comprese prima di altri le conseguenze dell’attività umana sull’ambiente. Un racconto che ha la facoltà di influenzare il lettore sensibilizzandolo al rispetto del nostro pianeta e che toglie George dalle pieghe della storia. Lo riporta in vita, sottolineandone l’attualità del messaggio. Come riporta Ciampi, piantare un albero è un’azione di puro amore scevro da egoismo. Un albero sarà grande tra venti, trenta anni, quando forse noi non ci saremo più. Chi ne godrà saranno i nostri figli. Spinto da questa considerazione, oggi, ho piantato una sughera in un piccolo lotto di pineta che ho vicino al mare. L’ho chiamata India, proprio come la mia bambina che nascerà tra due settimane. Cresceranno insieme, se saranno forti, se le persone non le abbatteranno. Come la sughera, la mia India dovrà mettere radici nella sua terra, ma tendere verso il cielo, l’infinito, il viaggio, la conoscenza. Vorrei chiudere questa recensione con le parole di Thoreau riportate da Paolo Ciampi nel suo libro:
“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto”.
David Berti
Il link alla recensione su Altervista: https://bit.ly/37xUWx8