“La vita schifa” su minima&moralia

La vita schifa, il festival dell’ossimoro di Rosario Palazzolo

«Quando sono morto io si fece festa, una festa stramba e inutile, ridicola come le cose ridicole, una festa che ognuno se ne stava a casa sua a gioire in silenzio, una festa senza brindo, una festa muta, una festa che se mettiamo uno passava di là non se ne accorgeva che c’era quella festa, era una festa cacchia, una festa senza cerimonie, una festa guasta[…]»

Rosario Palazzolo è da sempre un portatore (in)sano di linguaggio. Chi abbia letto i suoi precedenti romanzi, cito qui il meraviglioso Cattiverìa (Perdisa pop 2013) – un libro nel quale il linguaggio veniva reinventato pagina dopo pagina, fondendosi e scomponendosi per riscoprirsi diverso. Il dialetto siciliano, le sgrammaticature e l’italiano si reggevano tenendosi per mano, a volte si abbracciavano, altre si prendevano a schiaffi e lo facevano dentro una corsa di punteggiatura stesa a perdifiato. Una meraviglia. La stessa cosa, Palazzolo, che è anche drammaturgo, attore, regista teatrale, la fa quando scrive per il teatro, consiglio agli appassionati di andarsi a cercare gli articoli o i video che raccontano di Letizia Forever, una delle cose più affascinanti e magiche che siano andate in scena negli ultimi anni in Italia.

Quindi per raccontarvi La vita schifa (Arkadia, 2020), il libro più recente di Palazzolo, bisogna partire proprio dal linguaggio e dal fatto che lo stile conti molto più della trama. Come dice il grandissimo Rodrigo Fresán è lo stile che fa l’autore, la struttura è importante, la trama è secondaria. La lingua fa il resto.

Lo stile, allora. Palazzolo scrive in maniera accurata, precisa. Lavora contemporaneamente sulla singola parola e sul complesso della storia che vuole raccontarci. Le parole, i verbi, la punteggiatura diventano modulabili, si stringono, si allungano, suonano. Non si accontentano di descrivere una scena, o un personaggio, la assecondano e la cambiano. A ogni termine pronunciato non basta stare in bocca al protagonista ma gestirlo, starci insieme, così che ogni personaggio, dal principale a quello che compare in una sola pagina, diventa un’estensione della lingua, un complemento della parola, quando c’è un verbo è lui stesso il verbo, non nel senso religioso ma nel senso della letteratura. Questo fa Palazzolo, questo a noi interessa.

Le parole scelte, le frasi composte, si mettono a fare una corsa velocissima nelle pagine, le virgole si susseguono, le principali e le secondarie si nutrono l’una dell’altra, le subordinate comandano, le maiuscole quasi non esistono perché non servono, perché ogni parola è mangiata, sputata, se amore è con la minuscola perché non può esserlo palermo?erò ci ho messo dieci anni per leggerla e per capire che questa era una storia da raccontare.

Mia nonna era stile amandalìr, però più rotta, mezza corta, fatta di una specie che non si capiva se era femmina oppure no, per primo perché c’aveva la voce grossa, a uso canina, che pure mio nonno ci tremava, e poi perché si truccava tutta rossetto e occhi pitturati che io non ce li ho visti mai, gli occhi veri, a mia nonna, e difatti quando camminava per la strada, pure se tutti si abbassavano la testa per la paura, in fondo sghignazzavano sicuro, e lei manco una felicità, c’aveva nel senso di dimostrarla, e mai una parola bella per nessuno, e soprattutto per me, che ero quello venuto male nella famiglia, il fesso di testa, e infatti io, quando ero piccolo, mi pareva di essere il più sbagliato, l’errore costruito persona […]

La storia, per un attimo. Ernesto racconta la sua vita, la racconta da morto, un anno dopo, un anno preciso, sputato, come direbbe lui, da quando è morto. Ernesto è l’ammazzatore, l’uomo, e prima ancora il ragazzo, che viene scelto dalla mafia per andare a risolvere questioni fuori dalla Sicilia. Ernesto va, trova chi ha fatto lo sgarro, o chi è soltanto parente di chi commise il torto, magari venti, trent’anni prima, e gli spara, poi torna in Sicilia. Ma è morto davvero Ernesto? Non importa, è secondario, al lettore deve importare la prima persona, il narratore Ernesto che dice, con questa lingua viva e mischiata, quello che Palazzolo ha pensato per lui, e Ernesto racconta.

Dice di quando era piccolo, della sua famiglia, di sua madre, di suo padre morto, del nonno, del lavoro in campagna dallo zio, dalla faccia che cambia nel tempo a ogni carta d’identità che ha dovuto rifare. Per ogni cambiamento c’era un motivo, un motivo che poco dopo è fallito. Dice di quando lavorava la terra e gli piaceva, di quando lo vennero a prendere, dice della prima pistola. Fa avanti e indietro Ernesto, prima è morto e dopo è vivo, e dopo è di nuovo morto e parla e dice. Le fidanzate, i fumetti, il servizio militare, i treni, le ammazzate. È un assassino Ernesto, ma è pure un buono, uno che si è trovato dentro le cose e non ne ha mai scelta una.

Ernesto dice degli incubi, delle sue montagne piene di paure, dice dell’amore, di come ti venga a prendere e a portarti via, di come ti scelga, di come tu non possa farci niente. Di come non possa salvarti quando sei già perduto. Lo dice con un ritmo ossessivo e coinvolgente, lo dice che ti affezioni, lo dice che ti fa vedere un quadro esatto della vita, di come le cose siano spesso segnate, di come quasi sempre non siamo capaci, di come ritrovarsi con una pistola in mano sia questione di spazi di residenza, di quartieri da dove si viene, di famiglie dentro le quali si nasce. Da morto Ernesto è come una radio e da questa radio escono fuori i mafiosi e Ivano Fossati, la madre che gli dava dello scemo e Paolo Conte, Pupo e l’amore all’improvviso. La radio fa un ronzio di vita e di morte.

e io pure questo avevo provato, una gioia incapita e una paura così, come se tutta la smania che sentivo, tutto quel bisogno attaccato, quella gobba improvvisa, mi avrebbero potuto soltanto morire, come del resto è successo.

La vita schifa è un romanzo molto bello, uno dei più interessanti usciti in questa prima parte di anno; un libro destinato a restare sempre nuovo. È un libro sulla colpa e sull’impossibilità di redimersi. La vita, per lo scrittore palermitano, è un festival dell’ossimoro, solo che sono pochissimi i riusciti come quelli che venivano a Leopardi.

Se in Cattiverìa, Palazzolo, mischiava il dialetto all’italiano, inventando una lingua terza sospesa e vorticosa, con questo romanzo fa ancora un passo in avanti, il siciliano e l’italiano ormai sono fusi, sono un solo linguaggio, allora ci si può permettere di inventarsi parole nuove, cattive o buone, resistenti, durature, tutte battenti, tutte che ti lasciano la voglia di usarle. Succede questo con i libri o con gli spettacoli teatrali di Palazzolo, succede che mentre leggi o assisti (e anche dopo) ti viene voglia di parlare come parlano i tuoi personaggi, di possedere quella parola ritmata, quella frase precisamente suonata.

Gianni Montieri


Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

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