“La vita in più di Marta S.” su Giano Bifronte
La vita in più di Marta S.
Recensione a P. Musa, La vita in più di Marta S., Arkadia, Cagliari 2024, Euro 16.
Al centro della narrazione di Paola Musa, in un’ulteriore declinazione del ciclo dei vizi capitali, è la lussuria, esemplata in molteplici sfaccettature attraverso le reincarnazioni della protagonista, Marta Scacchi. “La vita in più” è forse quella che improvvisamente le viene concessa nel momento in cui, scampata all’esplosione dello stabile torinese in cui viveva, Marta S. conosce l’infermiere Virgilio e viene dall’uomo ospitata, intrecciando con lui una relazione sentimentale. Sin dalle prime battute, il romanzo appare calato in una clima straniante. Viene rievocato il momento in cui la protagonista si era recata a Torino per la Fiera dell’Eros, prima di stabilirsi nel capoluogo piemontese. Veniamo a conoscenza della sua singolare professione: si tratta di un ingegnere che lavora per la Sexmachine BV, nell’ambito della cosiddetta “industria del sesso”. ‘Straniante’ – si diceva – è l’approccio al dominio in questione con l’assunzione del punto di vista di un io narrante, la donna appunto, che tende alla spersonalizzazione di una materia di per sé pruriginosa attraverso l’uso di anglicismi e tecnicismi del settore: “avevamo esposto nel nostro stand una versione di dating app con nuove funzioni per i sempre più esigenti appassionati di incontri, due teledildo di nuova generazione e anche uno speciale prototipo di sexbot”. Sembra quasi di assistere, nell’ottica di Marta, a una de-erotizzazione dell’Eros, che è poi quanto la donna ha attuato nella sua vita: si consideri ancora, a tal proposito, il passo in cui ella medita su biologia e chimica “così riorganizzate, per farci compenetrare fino all’euforia”, elencando le componenti che da un punto di vista fisiologico concorrono al piacere fisico. Figlia del gestore di un sexy shop, da lei conosciuto solo nell’età adolescenziale, la giovane donna ha un approccio “scientifico” al fenomeno Eros; cerca di disincarnarlo attraverso la virtualizzazione e, paradossalmente (ma non troppo), si è votata alla castità. Marta finisce col vivere un “conflitto tra il (…) terrore nei confronti del sesso e la potente immaginazione con cui” riesce “a rappresentarlo”. L’abilità nella costruzione di vicende virtuali diviene ipostasi della sua capacità di dar corpo a storie, facendosene voce narrante nel plot del romanzo. L’approccio asettico dell’incipit si scontra però subito con il dionisismo dell’incontro con la misteriosa Anita Rojas. Teatro dell’evento è una mostra d’arte, mediocre sotto il profilo estetico, ma perturbante per la presenza di un Autoritratto in stile Balthus, di cui l’autrice si approccia con aria di sfida e odio a Marta: “Le hai viste, vero? So che le vedi, tutte le vite che ho vissuto. Perché in una di queste, mia cara, ci siamo già incontrate”. Ed è così che all’iniziale sensazione di asettismo si sostituisce l’incubo di un immaginario furiale e prende vita il dialogo tra l’io narrante e Virgilio. All’infermiere la donna racconta la propria storia (o dovremmo dire le proprie storie), ma solo mentre l’uomo dorme. Curiosa la scelta onomastica per questo personaggio. Il poeta Virgilio era la guida dantesca nell’Inferno, ma in questo caso è Marta a catapultarlo, nel sonno, in un infernale girone di vite metempsicotiche. Non dimentichiamo che Dante stesso dichiarava: “tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”. Non è peraltro da dimenticare come Virgilio fosse detto “Parthenias”, la verginella, e terreno vergine rispetto alla sensualità parrebbe l’infermiere, e lo è di fatto anche Marta nella sua ultima vita; non è poi ozioso ricordare come “Virgilio” sia, in ossequio a memorie di viaggi oltremondani, un celebre portale di accesso a contenuti informatici. Proprio questa narrazione a Virgilio, racconto che sembra svilupparsi nelle forme di un dialogo Luna-Endimione, porta alla rievocazione delle vite precedenti di Marta. Le seguiamo dispiegarsi non in ordine cronologico, tanto che si parte dalla Francia di fine Settecento, passando per il Medio Evo e il tardo Rinascimento. In tutte queste esistenze, la protagonista (in un caso incarnatasi in un uomo, Matteo Bonaveri) si connota per la disinibizione che la caratterizza; la lussuria diventa per lei strumento di dominazione dell’altro e la conduce alla rovina e alla morte violenta. Ecco perché Scacchi svilupperà poi l’idea di doversi astenere dalla “carne”, convinta della fatalità di qualunque attrazione cui dovesse cedere, e cui succederebbe ineluttabile la punizione. Musa introduce i personaggi di invenzione in contesti storicamente ricostruiti, facendoli interagire con figure quali la badessa Eloisa o l’architetto e pittore Giulio Romano. Compaiono di sfuggita nella partitura personalità quali Merga Bien, a testimonianza del terrore spesso suscitato nella società da figure femminili forte e indipendenti. Marta stessa nelle sue precedenti vite subisce il portato di tali pregiudizi; in alcune sue esistenze, ella manifesta una vocazione alla scienza che viene tarpata. Si consideri, per esempio, il rifiuto di Herr Weber di lasciarle studiare medicina. Numerose sono le analogie tra le varie vite: Leitmotive sono per esempio l’incidenza dell’elemento artistico e la sfrenata libertà dei sensi. Duplici sono le tipologie dei personaggi: alcuni, pur essendosi reincarnati (si pensi a Piero-Gemma), non hanno consapevolezza dei cicli vitali di cui le loro anime sono state protagoniste; altri, come Rojas e Marta stessa, attingono a una superiore forma di conoscenza, forse perché giunte al culmine della loro parabola metempsicotica. Non è ozioso il fatto che, se la prima sembrasse affetta dal morbo sacro nell’incarnazione che le aveva vedute incontrarsi, la tendenza agli svenimenti si trasferisca poi alla seconda nelle vesti di Marta, durante la vita che seguiamo al momento delle vicende. Non manca nel romanzo di Musa il riferimento agli studi e all’esperienza di Brian Weiss, con la cosiddetta “ipnosi regressiva” e le teorie ad essa connesse. Musa è abile nella costruzione di atmosfere che ci hanno ricordato, a tratti, la crudezza delle avventure della marainiana Célestine delle Memorie di una cameriera. Lo stile ci conduce senza infingimenti in un’aura a tratti decadente, in cui l’iterazione di dinamiche perverse sembra frutto di una sorta d’infernale coazione a ripetere, a meno che, nelle maglie della lussuria, non subentri la variabile imprevista, lo sbocciare dell’Amore. Quello che diviene unizione e forse salva se non dalle panie del destino, almeno dal labirintico vagare in una “fiera dell’eros” in cui ci si illude, invano, di esorcizzare l’angoscia dell’ultimo carnevale, la Morte.
Gianni Antonio Palumbo
Il link alla recensione su Giano Bifronte: https://tinyurl.com/7ajja3ty