La violenza in famiglia. Il romanzo denuncia di Michela Capone
Affariitaliani.it
Così nasce la violenza in famiglia. Servono forze dell’ordine specializzate
9 gennaio 2013
Lucia vive in una famiglia dominata un padre tirannico e dispotico, capace di qualsiasi violenza fisica e morale. In un universo costellato da percosse, sevizie, brutalità, cerca in tutti i modi di comunicare al mondo esterno la sua fragilità, la voglia di riscatto, rimanendo però sempre ancorata a una sottile forma di sudditanza nei confronti del padre-padrone che fa dei propri figli l’oggetto della sua natura perversa. Questa la storia che la giudice Michela Capone racconta nel suo libro “Per sempre lasciami” (ed. Arkadia). Un romanzo drammatico, basato su fatti realmente accaduti. Un libro di denuncia della violenza sulle donne e della complessità giudiziaria in cui si ritrovano.
Che storia racconta il libro?
“Racconta fondamentalmente la storia di una famiglia incestuosa, ma anche di una realtà familiare malata, chiusa in se stessa, caratterizzata da relazioni confuse, omertose, relazioni violente condivise, sottese da una sorta di patto di sangue cementato dalla dipendenza psicologica e dalla paura verso il carnefice, l’uomo, “padrone” della sua donna, dei suoi figli e dei suoi familiari conviventi. E’ la storia di una famiglia dove i maltrattamenti e l’abuso sessuale hanno radici lontane, dove il ciclo della violenza non è mai stato interrotto, dove da generazioni sono mancati ruoli definiti. In questo tipo di famiglia la protagonista, Lucia Trovato annaspa tra sentimenti ambivalenti verso il padre abusante e verso i familiari, anche loro vittime, che subiscono e lasciano che lei subisca, spesso con una sotterranea invidia per essere lei la prescelta dell’aguzzino che ha instaurato una vera e propria egemonia affettiva. E’ una situazione gravissima per un adolescente. Lucia Trovato inizia ad essere abusata dal padre a soli tredici anni, si sente sola, abbandonata, ferita nel corpo, sopraffatta psicologicamente, prova un dolore annientante, rabbia, vergogna e un profondo senso di colpa, anche quando troverà il coraggio di denunciare il padre che verrà perciò condannato a seguito di un processo altrettanto doloroso per la piccola e fragile vittima. Purtroppo la sua vita sarà segnata per sempre; l’ambivalenza del sentimento che la lega al padre e il senso di colpa per averlo fatto condannare l’attanaglia anche ora che sta cercando di organizzare la sua esistenza, lontano dalla sua famiglia che ha perso del tutto. Alla fine del processo a carico del padre, la povera Lucia ha circa vent’anni e lo invoca, perché il sentimento malato che li ha fino ad allora legati la liberi, ma poi, a distanza di quindici anni, gli scrive una lunga lettera che firma ” Per sempre tua”, in palese contraddizione con la sua preghiera ” Per sempre lasciami”. La protagonista del romanzo, purtroppo, non si è ancora affrancata dalla crudeltà del suo passato. E’ veramente inquietante, se si considera che sono fatti realmente accaduti, così come li ho raccontati, con la collaborazione attiva della protagonista e con qualche accorgimento di fantasia per impedire il riconoscimento delle persone realmente esistite e per smorzare la durezza del racconto”.
In questo tipo di situazioni che rapporto si instaura tra vittima e carnefice?
“Si instaura spesso un rapporto di dipendenza, di rassegnazione, che nasce dall’insicurezza che provocano esperienze di violenza fisica e sessuale. La violenza sessuale è un’esperienza sconvolgente che travolge e determina reazioni traumatiche che si vogliono allontanare; ciò innesca il meccanismo della rimozione, e, a volte, della sopportazione che ne attenua in un certo qual modo la gravità. Nel soggetto minore, soprattutto, l’abuso sessuale suscita il meccanismo difensivo della condivisione o il senso di colpa, che costituiscono scappatoie dalla dolorosa sensazione del sentirsi vittima di un adulto che non si assume alcuna responsabilità di un atto turpe e che magari costituisce un’importante figura di riferimento affettivo. Il bambino o l’adolescente patisce la prevaricazione fisica e sessuale in modo particolare quando l’aggressore è una persona che ama e allora, per attenuare il dolore del sentirsi sua vittima innocente, si convince di essere stato proprio lui la causa dell’atto violento, parte attiva di un rapporto sbagliato e innaturale. Questo si evince molto chiaramente dal libro. Lucia Trovato, ad un certo punto, prende su di sé la colpa del padre, quasi accusa il suo corpo adolescente di provocare l’istinto bestiale del genitore”.
Quali sono i tratti comuni a queste donne?
“Le donne che subiscono maltrattamenti e violenza dal proprio uomo, sono donne che hanno amato o amano ancora il loro aguzzino. Sono donne che sperano che il loro compagno, marito, amante, fidanzato cambi, sono donne che credono a promesse vane di un uomo che le possiede in toto e al quale hanno difficoltà a ribellarsi, anche per il terrore delle sue reazioni, spesso preannunciate da gravi e reiterate minacce intimidatorie. Scoraggia alla ribellione anche la dipendenza economica e abitativa che le lega a un uomo del quale non riescono a fare a meno, per la paura di finire sole, senza casa e senza soldi. C’è poi la vergogna sociale e l’esigenza di salvare la facciata di un’unione familiare che spinge queste donne a vivere la violenza fino alle estreme conseguenze, nascondendo episodi di sopraffazione fisica e morale subiti inizialmente nel silenzio e percepiti come fatti privati, anche per l’amore verso i figli da tutelare attraverso l’unità familiare da salvaguardare a qualunque costo. E, infine, sono donne che hanno sfiducia nelle istituzioni; permane spesso in loro l’idea di non essere credute, di essere giudicate colpevoli di avere, magari, sfasciato la famiglia (questo anche nei confronti della famiglia allargata); si convincono poi che tanto niente potrà cambiare e che lui, percepito per retaggio culturale come il più forte in quanto uomo, vincerà sempre. In queste donne alberga così un profondo senso di solitudine e rassegnazione, pericolosissimo, perchè può portare al loro assassinio per mano dell’uomo che si ama o che si è un tempo amato. Direi che la madre della sventurata protagonista del libro racchiude tutte queste caratteristiche”.
A livello giudiziario, che cosa si potrebbe fare per migliorare la complessità giudiziaria di questi casi?
“I reati sessuali e nati dalla violenza familiare presentano difficoltà peculiari nell’accertamento del fatto e nella formazione della prova; sono reati in cui le vittime pervengono alla consapevolezza dell’affronto subito a distanza di tempo e dopo un faticoso percorso di elaborazione del dolore Ciò è riscontrato soprattutto in caso di abusi o maltrattamenti avvenuti all’interno della famiglia, dove è forte la pressione psicologica per mantenere il segreto e dove la dipendenza psicologica e materiale della vittima nei confronti dell’abusante o maltrattante la induce a non denunciare o a denunciare tardivamente o a denunciare e ritrattare, questo lo si legge bene nel libro. Credo quindi che, in primo luogo, le vittime debbano essere aiutate per trovare la forza di denunciare.
Dai tempi della vicenda narrata nel libro, erano gli anni 94-95, la violenza sessuale, con la legge 66/96, è stato classificato come reato contro la persona (prima era reato contro la morale pubblica e il buon costume) e sono stati allungati i tempi per proporre la querela che, peraltro, una volta proposta è irrevocabile. Comunque, a parte casi di particolare gravità (come i casi di violenza su minori), il reato sessuale è ancora un reato perseguibile a querela, così come il reato di “stalking”, inserito nel nostro codice con la legge 38/2009 (questo diventa perseguibile d’ufficio solo in caso di perseveranza del suo autore inutilmente richiamato dal Questore). Forse sarebbe necessario arrivare alla perseguibilità d’ufficio di tutti questi gravissimi reati, per sollevare la vittima da una sorta di colpa che può avvertire nel denunciare e per eliminare l’idea che si tratti di “fatti privati”. A dimostrazione che il nostro codice, in fondo, concepisca questi reati come “affari privati”, lo dimostra il fatto che il delitto di incesto sia punito solo se ha creato pubblico scandalo, fatto inconcepibile quando c’è di mezzo un minore, come nel caso del libro.
Sempre nell’ottica di sostegno alle vittime, occorrerebbe favorire la specializzazione delle forze dell’ordine che raccolgono le denunce e dei magistrati inquirenti (in molte Procure ciò già avviene). Bisognerebbe da subito informare le vittime, per lo più donne, sugli strumenti di difesa che la nostra legge ha approntato, come per esempio la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione (introdotti dalla legge 154/2001) che consentono alla vittima di violenza familiare di chiedere al giudice la cessazione della condotta maltrattante del coniuge o convivente e il suo allontanamento da casa con l’obbligo però di continuare a provvedere al mantenimento della famiglia; o la possibilità di essere assistite da un difensore pagato dallo Stato, in vista del processo. Bisognerebbe incentivare la diffusione dei Centri antiviolenza e le Case di protezione che offrono immediata tutela alle vittime di questi reati e dare alle vittime una forma di tutela a prescindere dall’esigenza di arrivare a confezionare la verità processuale. In molte città italiane, di recente anche a Cagliari, presso i Pronto Soccorso dei principali Ospedali, cui la vittima si rivolge spesso nell’immediatezza della violenza subita, operatori specializzati (medici, ginecologi, psicologi, avvocati, assistenti sociali), per lo più volontari, si impegnano per dare una risposta complessiva ai bisogni della vittima e non hanno come obiettivo l’individuazione del responsabile. Tutto ciò dovrebbe diventare prassi garantita da una legge dello Stato.
L’Italia, flagellata negli ultimi tempi da omicidi femminili, è stata ufficialmente richiamata dalle Nazioni Unite perché adotti adeguati strumenti di difesa delle donne vittime di violenza e ora dovrebbe ratificare la recente Convenzione internazionale di Instanbul che afferma l’importante esigenza della prevenzione di questi reati e della protezione delle vittime, prima, durante e dopo il processo. E su tale punto la prevenzione non può prescindere anche dalla precoce presa in carico dell’autore di questi crimini o dalla sua ” cura” durante la detenzione, che dovrebbe garantire un trattamento speciale personalizzato al fine di evitare le recidive una volta scontata la pena, che, purtroppo, è ancora una pena bassa (per la violenza sessuale si arriva al massimo ai dieci anni, o ai dodici e ai quattordici in casi di vittima minore).
Sul piano processuale, poi, sarebbe importante ricorrere sempre all’incidente probatorio, che consente di acquisire la testimonianza della vittima fuori dal processo e senza il contatto processuale con il carnefice, e far sì che questo importante strumento probatorio possa essere richiesto anche dalla vittima e non solo, come accade ora, solo dal il P.M. e dall’imputato. Dovrebbero, quindi, ridursi a casi del tutto eccezionali le audizioni delle vittime nel corso del dibattimento e garantire, comunque, quando di ciò non può farsi a meno, forme di audizione protetta, fuori dall’aula giudiziaria, sempre al fine di evitare il doloroso contatto processuale con l’aguzzino. Ciò oggi avviene per legge a tutela delle vittime minori, ma dovrebbe estendersi a tutela di tutte le vittime di questi gravissimi reati, soggetti sempre deboli, a prescindere dall’età.
Infine, è imprescindibile aiutare la vittima nel suo reinserimento sociale, garantendole, dopo il processo, corsie preferenziali sul piano lavorativo e abitativo e assicurandole un sostegno psicologico attraverso l’azione del Consultori Familiari, strutture che dovrebbero a tale fine essere potenziate.
Sono, quelli esposti, suggerimenti che ho tratto dalla voce della povera protagonista del romanzo, che ha sofferto anche la vittimizzazione del processo e, soprattutto, l’abbandono dello Stato dopo che coraggiosamente ha fatto condannare suo padre. Lei ha voluto che scrivessi la sua storia sperando che altre donne siano aiutate come lei non lo è stata.
Lucia Trovato, dopo il processo, si è ritrovata in strada, senza famiglia, senza casa e senza un lavoro. Io le ho offerto un modesto aiuto, ma l’aiuto alle vittime di reati sessuali e di violenza familiare non può essere lasciata al buon cuore delle persone; deve essere un obbligo per il nostro Stato che spero si impegni sostanzialmente attraverso la veloce ratifica della Convenzione di Istanbul. Se no, tutte le nostre belle leggi non serviranno a niente e le donne continueranno a morire per mano dei loro uomini aguzzini”.