La ragazza di Boston
Era stata una lunga giornata. Di quelle che, nonostante l’adrenalina che l’aspettativa di futuro tipica della gioventù ti inietta quotidianamente nelle vene, appena sveglio avrei dato qualunque cosa per poter saltare a piè pari e ritrovarmi immediatamente al giorno successivo. Alle dieci sarebbe cominciata la sessione d’esame di Storia del Diritto Canonico, un esame complementare, di quelli che si inseriscono nel piano di studi per fare numero e sentirsi, senza troppi sforzi, un piccolo passo più vicino alla discussione della tesi. Era un esame che avevo approcciato male sin dall’inizio: tutti me l’avevano suggerito per l’ottimo rapporto impegno-risultato che garantiva. Inoltre, era dagli anni del liceo che avevo capito di essere attratto dallo studio della storia nelle varie forme in cui si presentava: non avrebbero dovuto esserci grossi problemi, quindi, a prepararlo, incamerare un voto che alzasse la media di quelli precedenti e farmi sentire più vicino alla laurea.
Negli ultimi due mesi, però, qualcosa non era girato per il verso giusto: forse la consapevolezza di non dover affrontare un impegno gravoso e la mancanza di qualsiasi forma di timore al pensiero dell’interrogazione mi avevano spinto a posticipare lo studio dei libri di testo nelle ultime due settimane a ridosso dell’esame. In genere, in situazioni così, si tratta di quattordici giorni di studio matto e disperatissimo: mattine e pomeriggi durante i quali non si mette il naso fuori di casa, impegnati a leggere più pagine possibile e a ripetere a voce alta i concetti più difficili da imparare, mentre le nozioni già apprese, sulle quali si sente maggiore confidenza, vengono bisbigliate a mezza voce alla velocità della luce per guadagnare il tempo necessario a poter imparare tutto il programma d’esame. Per Storia del Diritto Canonico non era andata così: l’idea di dover discutere un programma con deficit di preparazione a macchia di leopardo, invece che darmi lo stimolo ad applicarmi di più, mi faceva sorridere. Più si avvicinava il giorno dell’esame, più mancavo di voglia di studiare. Il problema era che non avevo alcun timore di non saper rispondere alle domande che assistenti di soli tre, quattro anni più anziani di me mi avrebbero potuto rivolgere. Se mi avessero trattato male, se mi avessero fatto sentire a disagio, pensavo che li avrei liquidati con una frase di pesante sarcasmo, mi sarei alzato e me ne sarei tornato a casa. Mi sembrava di essere in grado di gestire a mio piacimento anche l’eventuale situazione di imbarazzo derivante da una risposta non data, una forma di presunzione che più assaporavo e più mi piaceva. Per non rovinarla, continuai a studiare poco fino al giorno prima dell’interrogazione, quando mi resi conto che, se tutto fosse andato per il meglio, l’indomani avrei avuto un esame in meno da sostenere ma di certo la mia media-voto non sarebbe migliorata.
Ci dormii su, continuando a gustare quella strana sensazione di improvvida sicurezza che, quando mi svegliai la mattina successiva, era improvvisamente, inspiegabilmente sparita. Mi alzai dal letto ben prima che la sveglia suonasse, con la più tipica insicurezza che attanaglia lo studente nelle ore antecedenti l’interrogazione, incrementata dalla consapevolezza di non aver fatto assolutamente niente per evitare che le carenze di preparazione fossero ridotte al minimo. Mi preparai il caffè ma la situazione era tale che il mio stomaco si rifiutò di ingerire qualsiasi cibo solido che potesse accompagnare il liquido bollente e scuro di quella tazzina, che le altre mattine lasciavo che venisse prosciugato dalla pasta di un cornetto. Contrariamente a quanto mi ero prefigurato fino a ventiquattro ore prima, dovetti ricorrere alle strategie, più o meno efficaci, che mi aiutavano a mitigare lo stress tipico di quelle giornate. Per cui decisi, visto anche l’orario, di uscire subito di casa per evitare traffico e difficoltà di parcheggio nei pressi dell’università: arrivare con abbondante anticipo mi avrebbe consentito di cercare l’aula della sessione d’esame senza troppa fretta e trovare un posto comodo dove aspettare la mia esecuzione, ripassando i pochi appunti che ero riuscito a trascrivere nei due mesi precedenti. Era una di quelle mattine che sembrano promettere una giornata da favola. Il cielo era terso, di quell’azzurro ancora un po’ congelato caratteristico delle settimane di transizione tra l’inverno e la primavera. Quell’azzurro che quando ti fermi a guardarlo ti fa immaginare ogni parte del mondo: posti di mare, di montagna, paesi lontani dove giocare a immaginare una vita futura. Istintivamente mi lasciavo andare al flusso di quelle suggestioni che le mie autodifese stimolavano per allontanarmi, almeno momentaneamente, dalla morsa della tensione che il pensiero di quell’esame, che avevo preso con quella leggerezza così inusuale, mi stava procurando.