La ragazza dell’Opéra

Un estratto del romanzo di Adriana Valenti Sabouret

 

 

I

 

 

Émilie

Mi chiamo Émilie, nome ordinario che in germanico significa “lavoratrice”, ma mi chiamavano tutti Milly le petit rat.
Milly la topolina, o più precisamente, Milly il piccolo ratto, un ratto dell’Opéra di Parigi.
Sono nata a Pigalle, quartiere popolare e pittoresco, nel 1869.
Nel nome che mi avevano attribuito era racchiuso il mio destino perché di duro lavoro e rigore fu impregnata la mia vita travagliata.
“Era scritto”.
Ma dove? Nelle stelle, su un libro sacro? Dove sono scritte esattamente le improrogabili e capricciose volontà di un fato infame? Me lo ero sempre chiesta, quando le persone chiosavano un colloquio con tale frase lapidaria quanto esecrabile.
Émilie la lavoratrice.
Émilie le petit rat.
Il ratto, un animale repellente, nauseabondo, piccolo ma distruttivo e molesto.
Perché denominare così delle bambine? Ingiuriarci attribuendoci il nome di un animale che incute un misto di paura e ribrezzo?
Una bestiola sporca, nociva, ripugnante e ai margini della società umana?
Va, viene, corre, disturba, vive in gruppo, sormonta gli ostacoli, proprio come noi petits rats del Palais Garnier.
La spiegazione era forse questa e poi il ratto era anche uno dei simboli di Parigi, come la Senna.
I roditori vivevano numerosi nella capitale, famelici, ingenui e maligni al pari di noi bambine che cadevamo nella trappola per topi dell’Opéra come i ratti nelle gabbie attirati dalla Groviera.
Il nostro formaggio era il successo, lasciapassare che ci avrebbe consentito di abbandonare i luridi tuguri insalubri e maleodoranti in cui vivevamo ammucchiate con una risma indefinita di fratelli e sorelle.
Pigalle era invaso da sordidi nuclei familiari dove la prole promiscua somigliava più a nidiate di ratti che a rampolli di famiglie benestanti.
Noi petits rats eravamo le figlie della miseria, proprio come i gamins des rues e le altre figure del popolo parigino onesto e industrioso.
Sorrisi mesti e innocenza perduta, lavoravamo per non morire, barattando i nostri esili corpi per un tozzo di pane, costretti dalla sorte matrigna.
Talvolta mi sentivo un gamin de théâtre, dovendomi districare nella classe di danza e negli ambienti dell’Académie royale de musique come facevano i piccoli vagabondi per sopravvivere alle insidie della strada.
Mia madre mi aveva destinata alla carriera di danzatrice all’età di otto anni.


Arkadia Editore

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