“La ragazza andalusa” su Alibi Online
SULLE STRADE DI SPAGNA (E PORTOGALLO)
Recensione di “La ragazza andalusa”, di Alessandro Gianetti (Arkadia editore)
Anche per questa recensione sono, in qualche modo, “partigiano”. Infatti, la Spagna che fa da sfondo al romanzo l’ho visitata molto, negli anni Ottanta. Andarci a frequentare dei corsi estivi era un modo utile, e tutto sommato abbastanza economico, per trascorrere le vacanze. Utile, perché, oltre a imparare una lingua e a conoscere una cultura, si aveva l’opportunità di confrontarsi con persone provenienti dal mondo intero (non solo dagli altri Paesi europei, ma anche dal Giappone, dalla Costa d’Avorio, dallo Zaire, dagli Stati Uniti, dall’Australia e persino dalla Cina…). La Spagna di Gianetti non è però quella cosmopolita degli studenti stranieri estivi. È, semmai, quella della famigerata (soprattutto oggi…) movida, che attirava e attira gli indigeni ancor più che non i “turisti gaudenti”. Con una motivazione particolare, per i primi: il trovarvi sfogo e soddisfazione a una voglia di divertimento libero compressa e frustrata da quarant’anni di dittatura franchista – un regime cattolicardo, pesantemente condizionato dal rigido moralismo (soprattutto in campo sessuale) dell’Opus Dei, organizzazione confessionale che nel Governo gestiva diversi ministeri. Il Generalissimo Francisco Franco Bahamonde (quelli della mia età lo ricorderanno) morì, nel suo letto d’ospedale, nell’autunno del 1975, dando così luogo a una progressiva transizione verso la democrazia che si concluse appieno solo con le elezioni politiche del 1982, vinte dal Partido Socialista Obrero Español (P.S.O.E.) di Felipe González. Più difficoltosa e lenta fu invece la liberazione dai condizionamenti e dalle “castrazioni mentali” dell’educazione pseudo-religiosa, imperante in tutte le scuole e ambienti pubblici. Ricordo molto bene come, ancora nel 1983, se si passeggiava per via abbracciati a una ragazza, gli automobilisti in transito si mettevano a suonare il clacson, quasi assistessero a chissà quale spettacolo immorale. E ancor di più se si trattava di una rubia, chiaramente individuabile come straniera (nel mio caso, la bionda – invero, piuttosto carina – si chiamava Dominique). Parliamo di città universitarie come Valencia, non di sperduti villaggi montani! Vediamo e commentiamo, ora, la trama del libro. Come l’autore, l’io narrante è un traduttore-scrittore di Firenze che da alcuni anni si è insediato in Spagna. L’età, tuttavia, non coincide: Gianetti risulta nato nel 1976; il protagonista-narratore afferma invece di sé (pag. 153): “le mie mascelle non erano mai state così glabre da quando avevo diciott’anni, cioè dal 1984”, per cui dovrebbe aver visto la luce nel 1966 – dieci anni prima.Un sabato, facendo il giro notturno dei soliti locali assieme a un gruppo di amici, conosce una giovane che gli pare diversa dalla massa delle altre, “la ragazza con il maglioncino bianco”, definita anche, appena sotto, “la ragazza dal foulard colorato”. A fine capitolo compare invece il nome anagrafico, “Beatriz”, che per un fiorentino possiede, come possiamo facilmente intuire, risonanze del tutto speciali. La ragazza, comunque, non è toscana, bensì andalusa, di Siviglia. Il narratore (anonimo per tutto il tempo del racconto) prosegue, in compagnia della donna, la propria via crucis libatoria, finché, all’alba, si separano, scambiandosi i numeri di cellulare. Passati alcuni giorni, riceve un messaggio (S.M.S.) da lei. Concordano quindi un appuntamento e cominciano a frequentarsi, a “stare insieme”, idealmente e fisicamente: sia a Siviglia che a Madrid che in successivi viaggi attraverso l’Algarve portoghese, il Nord del Portogallo, l’Extremadura di entrambe le nazioni. La ragazza è piuttosto apatica e taciturna – o forse sarebbe meglio dire laconica, centellinando e soppesando a lungo le parole prima di proferirle. Lui, invece, è un logorroico che snocciola a raffica allusioni e citazioni più o meno colte, facezie più o meno riuscite od opportune, riflessioni serie e luoghi comuni. Pertanto, i “sovrumani silenzi” di Beatriz gli paiono un vero e proprio mistero, un enigma che tenta inutilmente di decifrare. Dopo un ultimo itinerario tra i luminosi paesaggi d’Andalusia, la coppia giunge al villaggio natale della ragazza, per un pranzo in famiglia che si rivela un esame da parte della commissione giudicatrice dei parenti. Il nostro eroe ne esce irrimediabilmente bocciato. La relazione sentimentale ha termine. E il narratore scrive queste pagine, accumulando parole per rivalersi della loro assenza in bocca a lei. Fin qui la vicenda, né ordinaria né straordinaria. Ciò che però appare importante è il modo in cui essa viene presentata: lo stile, i dettagli, le immagini costituiscono la ricchezza precipua del libro, il motivo per il quale, secondo me, merita di essere letto. La frase posta in limine è del cubano Guillermo Cabrera Infante; ne rammento La Habana para un Infante difunto (che, a dire il vero, non ho terminato di leggere…). Lorca e Hernández a parte, altre citazioni (p. es, “il tiepido e diligente lunedì” – sarà forse “el tibio y aplicado lunes”?) mi risultano sconosciute, come pure la quasi totalità dei gruppi musicali menzionati. Ricordo invece bene, nei primi anni Ottanta, la un po’ isterica canzone Maquillaje, del complesso pop Mecano, e, ovviamente, ho apprezzato i riferimenti a Charles Trenet e a Jacques Brel. Veramente eccezionali, per efficacia descrittiva, i numerosi brani puramente odeporici, come “In mezzo a tanto nulla, le poche cose che scorgevo, una casa colonica, un uliveto, un ciuco, ci separavano dalla loro oggettività fisica e galleggiavano in uno spazio che vibrava al calore del Sole, assumendo le sembianze di un miraggio” e i paragrafi che seguono, o “Da lassù vedevamo una bruna linea d’Africa, ma ci limitammo a raggiungere la spiaggia deserta più vicina, una depressione bagnata dal mare grigiastro, con qualcosa di sonnolento”, o le intere pagine 91-92. Non condivido, invece, il giudizio del narratore su Porto, “dove il Portogallo ritorna quasi Spagna”: a mio parere ha semmai ragione il personaggio di Antonio Tabucchi che osserva “Veramente Oporto manteneva certe caratteristiche che Lisbona aveva ormai perduto” – per tacere delle sue bi-turrite chiese barocche, coperte di azulejos, così simili a quelle brasiliane… Il vino Amontillado, che i due sorseggiano in più occasioni, mi fa pensare immancabilmente al macabro racconto eponimo di Edgar Allan Poe. Ma riprese, echi e richiami più o meno espliciti emergono un po’ dovunque, nel volume. Uno per tutti: la descrizione del mercato delle pulci di Siviglia ritengo debba non poco alla prosa di Carlo Emilio Gadda Carabattole a Porta Ludovica, inclusa nella raccolta Verso la Certosa. Alcune frasi o espressioni, infine, mi hanno lasciato perplesso fra ritenerle un errore non corretto in sede di editing oppure qualche oscura allusione o gioco di parole: es., a pag. 64, “trade union” (che è il Sindacato inglese…) invece di “trait d’union”. Per concludere, annoto due piacevoli, suggestive coincidenze con antichi ricordi personali in terra di Spagna. La paella de mariscos gustata in un chiosco sulla spiaggia (all’epoca mia, non si usava ancora il termine messicano chiringuito) mi ha reimmerso nell’atmosfera ormai favolosa di un pranzo analogo, in compagnia della bionda e bella Dominique. E alla stessa persona mi ha riportato l’incontro, descritto più avanti, nell’ampio atrio della Stazione. Insomma, una lettura che vale davvero la pena, e non solo per un quasi anziano vagamente nostalgico come me…
Marco Grassano
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