La presenza e l’assenza

Il primo capitolo del nuovo romanzo di Franz Krauspenhaar

 

1

 

Quando Rossano Tommei entrò nel bagno, sua moglie Daniela era ancora a letto. Lui si alzava sempre per primo. Si avvicinò al lavabo e al posto della saponetta trovò il cellulare di lei. Un’accoppiata davvero insolita, un telefonino in un portasapone. Lo afferrò. Perché l’aveva lasciato proprio lì, nel bagno? Daniela era distratta, abulica, una bellissima giovane donna senza forze e senza interessi. Dimenticava tutto, era una specialista della dimenticanza. Ma il cellulare nel bagno era troppo. Tommei chiuse la porta e si sedette sulla tazza del water. Si mise a cercare l’ultima chiamata ricevuta, era un numero fisso, lo annotò nella mente. Era lui, dunque, l’amante. Lo schifoso, l’animale. Un anonimo, ma finalmente con un numero di possibile identificazione. Un numero segnato.
Non sapeva se mollare il telefono sul portasapone o riportarlo in salotto dove di solito Daniela lo appoggiava. Gli venne in mente subito dopo che spesso lo dimenticava anche altrove. Se l’avesse lasciato dove l’aveva trovato, lei avrebbe potuto insospettirsi, e pensare: Rossano è entrato nel bagno e l’ha visto lì, ha trovato strano che fosse proprio lì… E dunque avrebbe indagato, perché lasciare un cellu- lare in un portasapone può voler dire una cosa soltanto: che ci si è chiusi in bagno a parlare per non essere uditi. A quel punto Tommei arrivò alla conclusione che quella telefonata era stata ricevuta quando lui era in casa. E per questo Daniela era stata costretta a rinserrarsi nel bagno, per parlare con il suo amante. Ma allora perché non andare in un’altra stanza? L’attico era grande. Forse la moglie non ne aveva avuto il tempo. Il bagno di lui – quello in cui si trovava adesso – era il locale più vicino alla camera da letto. Ricordava: la notte prima era crollato nel sonno non dopo le undici. E Daniela a che ora l’aveva raggiunto nel letto? Questo non poteva ricordarlo: s’era addormentato subito e s’era svegliato pochi minuti prima di arrivare a quella strana scoperta. Decise di non rischiare: uscì dal bagno con il cellulare in mano e lo mise sul tavolino di acciaio in mezzo alla sala. Annotò quel numero sul retro di un suo biglietto da visita, il primo pezzo di carta che aveva avuto a portata di mano, cacciando affannosamente la mano libera nel portafoglio. Ritornò nel bagno e cominciò a lavarsi con la saponetta che aveva trovato abbandonata per terra.
L’azienda di intermediazione commerciale di Rossano era sistemata dalle parti di piazza Cairoli, in una palazzina in stile sbadatamente fascista, un bugigattolo ingrandito a dismisura, qualcosa che aveva fatto persino paura a qualche visitatore particolarmente sensibile di nervi: sei o sette stanze con poca luce e arredate vecchio stile per le sue compratrici e le loro segretarie o, come si usava dire da un po’ di tempo, per pulizia d’immagine più che di linguaggio, assistenti.
L’uomo si sedette alla sua scrivania e chiamò la sua assistente personale, Carla, per un caffè; in fondo Carla era brava anche in questo: nel prendere l’ordinazione, andare alla macchina automatica del caffè, mettere il gettone nell’apposita fessura, attendere, ritirare il bicchierino e portarlo senza indugi e a testa eretta al suo capo, il quale la pagava abbastanza bene anche per questa assistenziale prestazione.
«Novità di rilievo o anche soltanto novità e basta?»
Il grande capo sorrise alla donna, una bella quarantenne che però Tommei s’era sempre guardato bene da invitare da qualche parte dopo il lavoro: prima il dovere e poi ancora il dovere, con Carla, fino alla fine e senza ripensamenti, e badando sempre a non fare passi falsi verso un letto qualsiasi – nel caso ci fosse stato un bicchiere di troppo a scatenare un appetito insospettato.
Una volta che Carla fu uscita dall’ufficio col suo passo felpato galleggiante al di sotto della gonna scampanata e il caffè bevuto, lui aveva indugiato chino sull’agenda, perché prima di cominciare il lavoro esitava sempre; in fondo era un pigro, e ogni volta doveva forzarsi ad agire. L’azione non gli veniva direttamente dall’animo, era piuttosto una reazione alla sua pigrizia; una volta scardinata quella porta interna diventava per lui automatico tuffarsi nell’azione, e Tommei era uno che, rigettata la sua vera natura profonda, si lanciava a corpo morto, gli piaceva quel gettarsi a corpo morto nell’azione, lo faceva sentire vivo attorno a un mucchio di morti – quasi tutti gli altri, e da un bel po’ di tempo – che perciò disprezzava in quanto, per l’appunto, morti viventi nella sua valutazione; e quest’azione, che era null’altro che una continua reazione, veniva ogni volta a salvarlo dalla pigrizia che gli covava dentro come un ragno in agonia soprattutto al primo caffè in ufficio, quando Carla usciva e lui si trovava a tu per tu col caffè e con l’agenda, e quell’agenda era una specie di montagna rivestita in pelle da scalare all’inizio con molta fatica.
Tommei si mise a pensare a quando aveva cominciato, giusto vent’anni prima, nella sua città, la città che ancora amava anche se a malincuore e con una fitta di delusione: pensava che una città in vent’anni cambiasse in un modo tale che, se ve ne prestassimo la dovuta attenzione, se mettessimo a paragone una foto di allora con una di oggi, entrambe scattate nello stesso punto, proveremmo una voraginosa fitta di rimpianto e di sconcerto e addirittura, in alcuni casi, di orrore. Il traffico s’era sconvolto a rotta di collo e le auto erano diventate tutte diverse, e la gente ora si vestiva, si truccava e si pettinava in modo diverso, e anche il suo vecchio ufficio s’era dovuto rinnovare e così buona parte del personale. Soltanto certe compratrici che lavoravano per lui e la sua assistente Carla erano rimaste le stesse ma – beninteso – invecchiate di vent’anni; quelle che quando le aveva assunte erano delle ragazze con poca esperienza del lavoro e anche della vita e ora erano diventate delle signore sposate di mezza età, e le loro figlie assomigliavano a quelle giovani ragazze che erano state loro un tempo anche se le loro figlie, per la maggior parte, avevano meno speranze e meno fiducia nel futuro delle loro madri quando queste avevano la loro stessa età.
Le donne, appunto. Rossano aveva amato Giovanna vent’anni prima: la sua prima moglie. L’aveva amata e qualche anno più tardi l’aveva odiata, e il matrimonio era stato ucciso con un colpo netto di fronte al giudice; e ora, da un paio d’anni e dopo una lunga serie di relazioni mediamente brevi s’era risposato con Daniela, venticinque anni meno di lui e piena di silenzioso fascino e assomigliante in maniera quasi pervertita a Giovanna, una specie di copia disperata del suo vecchio amore, un giovane, struggente ricalco fisico.
E ora anche Daniela dimostrava di non amarlo affatto, perlomeno di non amarlo più. O forse non l’aveva mai amato? Era questo che Rossano si chiedeva e richiedeva da un bel po’ di tempo, e la risposta non arrivava mai, forse non sarebbe mai arrivata.
Rientrò a casa verso le due del mattino. Era sudato, gli occhi lucidi. Ma non aveva pianto. Si ricordava di aver bevuto ma non dove e chissà cosa. Le luci erano ancora accese ma tenute basse. Daniela guardava la televisione, un canale satellitare: RaiSat Album.
«Ti piace quella roba?», le chiese avvicinandosi felpato. Si sfilò l’orologio d’oro dal polso. Pesava come una pietra sul cuore. Lo poggiò sul tavolino d’acciaio.
«Quale roba? Che dici?», domandò lei, con gli occhi sbarrati in direzione dello schermo, senza muovere un mu- scolo che non fosse quello della sua bocca non piccola ma dal taglio quasi perfetto. Indossava una vestaglia che sembrava di gomma gialla.
«Quel canale. Le vecchie commedie, i vecchi varietà. Tu non eri neanche nata.»
«Appunto», disse lei accendendosi una sigaretta. «M’informo. Interessanti. Molto meglio della roba che danno adesso.»
Lui non commentò. Era stanco. Forse stava cedendo. Daniela in quel momento stava apprezzando con tutta se stessa una puntata del Maigret con Gino Cervi.
«Che anno sarà stato?», chiese al marito sempre senza muoversi, sempre ipnotizzata da ciò che stava guardando. Lui allora le si avvicinò. Vide per alcuni secondi il vecchio commissario. Gino Cervi. Morto e sepolto ma vivo nei ricordi soprattutto di quei nastri registrati.
«A occhio e croce anni Sessanta.»
Si fermò. Si sedette accanto alla moglie senza nemmeno togliersi la giacca e le accarezzò la testa dai capelli neri e lucidi, rivolta con ostinazione verso il televisore. L’amava alla follia. Lei gli fece un minimo gesto scostante, troppo attratta da quello che stava guardando: Gino Cervi in sorniona azione tra le pieghe di un delitto.
«Signora Maigret…», diceva l’attore dallo schermo, svagatamente rivolto ad Andreina Pagnani.
«Signora Tommei…», disse lui con un tuffo al cuore rivolto a Daniela, che non lo ascoltò. Poi, pian piano, dopo essersi accasciato sul divano a fianco della donna, anche lui si appassionò al programma. Allentò il nodo alla cravatta, si tolse i mocassini. Si dimenticò di tutto il recente passato. Si lasciò andare con gli occhi ancora lucidi tra le strade di una Parigi che non esisteva più. Vecchie auto, ora, trottavano per i Campi Elisi in bianco e nero. Maigret saliva dalla portiera posteriore di una ds nera e le note jazz dissipavano la scena dissolvendosi con essa. Rossano strinse la mano di Daniela con delicatezza. Rivedeva un Maigret di Gino Cervi dopo circa quarant’anni.
Una decina di minuti. Finì la puntata. Calò la sigla. Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco. Daniela sembrava incantata come una bambola rotta con le molle fuori dalle orbite nere. «Un giorno dopo l’altro, la vita se ne va…» Era affascinata da quella canzone del passato che prediceva il futuro.
E lui andò a versarsi un whisky.
Poi si diresse verso la cucina. Aprì lo sportello del frigorifero. Era intasato di ogni cosa commestibile, un supermercato del freddo in miniatura.
Pensò che un frigorifero troppo vuoto fosse una cosa squallida.
Subito dopo pensò che un frigorifero troppo pieno lo fosse ancora di più.
Si decise per uno yogurt al miele. Un po’ di dolcezza dopo l’amaro del whisky.

Era da qualche tempo che Rossano sospettava. Pensava a Daniela nelle braccia di un altro, sentiva addirittura il profumo dell’amante, un’essenza scura, penetrante, oleosa, volgare, di scimmia dinoccolata dei quartieri alti. Era qualcosa che avvertiva con vaghezza, che non riusciva a distin- guere tra la folla imbronciata dei suoi pensieri. Una freccia con la punta avvelenata che colpiva la sua mente di taglio e a percussione. Una fissazione sghemba ma solida, che lo veniva a trovare spesso, che s’insinuava tra le pieghe nere della sua esistenza in auto, al lavoro, e – soprattutto mentre dormiva – sotto le mentite spoglie di incubi. E ora aveva quel numero.
«… E domani vai ancora dal dottor Giustiniani?», do- mandò alla moglie rientrando nel soggiorno col vasetto dello yogurt in mano. Daniela aveva spento il televisore e anche la luce. Guardava lo schermo vuoto. Accese una sigaretta e si voltò solo allora verso il marito, che in piedi attendeva una risposta, in una mano il cucchiaino ancora vuoto e nell’altra il vasetto lattiginoso.
«Perché non ti metti il pigiama e vai a letto?», rispose lei.
Lui ne fu colpito. Ora Daniela rispondeva alle sue domande con altre domande che non avevano senso. Lo colpiva senza motivo. Non rispondeva, lo evitava. Non lo amava.
«Hai sentito cosa ti ho chiesto?», disse lui.
«Se domani vado dal mio psicoanalista, sì.» Sbadigliò, le si contrassero gli occhi. Sbadigliò di nuovo stirandosi appena. «Se sai già la risposta perché mi fai le domande?»
«Vale a dire?» Rossano si avvicinò piano, stringendo i denti. Socchiudendo gli occhi.
«Vale a dire che ne avevamo già parlato, mi pare. Comunque sì, vado da Giustiniani, come ogni giovedì.»
Lui si sedette sul divano accanto alla moglie, come poco prima guardando quel vecchio sceneggiato. La osservò tra le sabbie mobili dell’ombra. Respirava a fatica.
«Che cos’hai?»
Non rispose. La guardava e si perdeva nel proprio af- fanno. Si mise a pensare a un cavallo a dondolo che aveva avuto da piccolo. Era stato d’inverno, dopo Natale. Suo pa- dre era tornato da un viaggio in Germania – a Norimberga – con quel voluminoso giocattolo. Era rosso e giallo oro. Mentre lo scartava affannosamente, Rossano aveva pianto per la commozione. Suo padre lo aveva guardato e aveva sorriso; nei suoi baffi biondi c’era soddisfazione, odoravano di pipa, erano baffi comprensivi e buoni. La madre era morta da poco. Il padre aveva pianto davanti a lui, davanti al figlio, dopo quel sorriso, in silenzio.
«Cos’hai, papà?»
«Niente, caro, niente», aveva risposto il padre. E le lacrime intanto scorrevano lente e grandi sulle sue guance incavate tra uno sparuto nido di barba.
«Che cos’hai?» Era di nuovo Daniela, mezzo secolo dopo. Ora lo guardava, perso nel buio. La sala era investita dalle ombre, nemmeno una luce era accesa, piena notte su tutto. Le due e mezza, forse anche più tardi.
Lui si alzò, continuava a respirare a fatica. Davanti gli si spalancava un nero totale. Suo padre gli camminava incontro nel pieno di quel nero, il suo ricordo spettrale avanzava come lo spaventapasseri di un fumetto dell’orrore, brandendo il cavallo a dondolo come un’arma a doppio taglio. Lo buttava per terra, di colpo: ora lo vedeva risplendere, giallo oro e rosso, rosso e giallo oro, gigantesco, che svettava su tutto e si gonfiava, pieno di luce bicolore, sfolgorante.
«Rossano, cosa c’è?»
Il cavallo a dondolo scompariva nel buio. Nessuna luce di nuovo, come un sipario calato. Rossano si risedette.
«Sono solo stanco. Ho avuto una giornata pesante. Vado a dormire.»
Ma avrebbe voluto dirle: «Vai davvero dal dottor Giustiniani, domani? Ci vai e basta? Parli con lui di noi due? Di cosa parli con lui? Perché non mi parli un po’ di lui?»
Il loro matrimonio era agli sgoccioli, solo questo gli appariva chiaro in tutto quel nero. Per quanto tempo, ancora? Poteva prevederlo? No. Quella giovane donna l’aveva preso al laccio fin dall’inizio, e quello era stato l’inizio della sua fine. Così sospettava.
Rossano andò in camera da letto. Si spogliò nel buio con lentezza, continuando a respirare a fatica. Aveva paura. Sentiva Daniela allontanarsi mentre in realtà lo stava raggiungendo in camera.
Ora era nudo. Lei si avvicinava. Gli sembrò enorme. Lei si spogliò. Aprì le braccia.
In ufficio, il mattino seguente, dopo essersi fatto portare il caffè da Carla, Tommei telefonò a casa. Non rispondeva nessuno.
Si chiese cosa Daniela stesse facendo. Era aggredito dall’ansia.
«Un uomo della tua età…», si disse. «Eppure stanotte lei è stata sublime. Di che ti preoccupi? È solo un numero di telefono. Non hai avuto il coraggio di controllarlo per tutta la giornata; e allora? Quel coraggio lo troverai. Fidati. Sarà bellissimo scoprire che quello è un numero innocente, no? Sarà una liberazione. Ma non ora, non ancora. Riprenditi, prima. E pensa a quel suo meraviglioso corpo nudo che scivolava tra te e le lenzuola e andava su è giù; e sì, quando tu eri sotto di lei i suoi capelli ricadevano come fiori colati a picco, fiori neri di lutto. Lutto amoroso? Morte del suo amore? Tutto agganciato a quel numero? A quel numero sbagliato? A quel numero tormentato? Lo farai, quel numero. Controllerai, amico mio. E ne riderai. Sì. Tu l’hai guardata negli occhi perché lei ti fissava, e quegli occhi neri e lucidi e spalancati nella notte ti hanno fatto paura, una paura immensa. Mai provata prima. La paura di quegli occhi nei quali sfolgoravano quei numeri neri, quei numeri neri spuntati nella notte dal niente.»
«Non c’è, non c’è…», pensava ancora, «è già uscita, ma dove? Dov’è? La odio quando fa così, odio queste cose, una donna tua che scappa dalla tua casa così presto, una donna tua che non lavora, che non ha voglia di fare nulla, una donna tua apatica, che guarda la televisione per ore e ti aspetta e non fa nulla, sta in casa; e non ha nemmeno voglia di uscire la sera, e questo è un bene, sì, ma poi c’è solo quest’apatia, questa maledetta e continua apatia, sempre…»
La chiamò al cellulare. Spento. S’inquietò maggiormente. Era la gelosia. Sempre. Pensò a quel numero. Doveva farlo.
«Fallo ora», pensò. Ma non si decise.
Soltanto nel pomeriggio si convinse a comporre quelle cifre. Attese a lungo. Nessuno rispose. Chiamò la Telecom: quel numero risultava inesistente.
Il cuore a percussione, l’angoscia. La consapevolezza che non esisteva nessuno da quell’altra parte.
Si decise a lasciar stare, per ora. Lo avrebbe studiato più tardi. Era solo un numero. Invece Giustiniani un numero non lo era, era un uomo che da sei mesi spiava nella mente di sua moglie. Sondava il terreno. Forse vi martellava dentro. Forse la confondeva, infondendole sentimenti contraddittori o addirittura negativi. Nessun significativo cambiamento in lei si era verificato, comunque. Ci fosse o non ci fosse andata, da Giustiniani, per Daniela tutto sarebbe rimasto gommosamente uguale.
«Tu ami una donna di gomma», si disse.
Com’era giunta fin dallo psicoanalista, lei? Semplice: si annoiava. Il suo egocentrismo dannato e apatico ma non delirante. Forse perché taceva spesso. Ma comunque tutto ruotava intorno a lei, fino alla fine, senza motivi e tregue.
Paura. Ansia, angoscia. Due cose diverse? O uguali? Di- pendeva. Né l’una né l’altra, nel caso di lei. Daniela soffriva di apatia. Di tedium vitae. È per questo che aveva deciso di andare dallo psicoanalista. Ma l’aveva proprio deciso lei? No, era stata una sua amica, la bella ragazza che fa duecento cose senza portarne a termine una. L’ha convinta lei. La studentessa di medicina. L’amica che aveva conosciuto assieme a Daniela, nella stessa occasione: Marilena.
Lui sì che aveva l’ansia. Un’ansia quasi da sempre. Stato d’animo che poteva mitigare in un unico modo: infilandosi nel tunnel della città e correndo a perdifiato nelle faccende d’affari.
«Maledetta città», pensò Rossano, «e benedetta quando sei deserta e non pretendi. Io ti amo, città. Io ti odio, città. Quando non mi fai vedere nulla. Quando cambi. Quando t’involgarisci come una puttana da strada. Città, tu porti le minigonne nere di pelle delle prostitute albanesi e dei travestiti sudamericani. Tu non sei più la città che incontravo e amavo vent’anni fa: tu, città, corpo di città. Città di Milano, io ti ho amato. Ma quest’amore è perduto.»
Decise di andare in viale Giovanni da Cermenate e attendere che Daniela si presentasse dal dottor Giustiniani come aveva prefissato.
Le 17.00. Stava seduto sulla Jaguar e sentiva l’odore dolce, di carcassa macellata, dei sedili in pelle. La radio ronzava appena. Un sibilo di notiziario che s’interruppe dopo pochi secondi. Ne scaturì una sequenza di suoni elettronici. Spense.
Attese a lungo. Pioveva a fasci d’acqua che scendevano duri e dritti e compatti e dappertutto. Le foglie si camuffavano tra i rami di alberi appannati, l’erba scappava ingrigita dall’acqua, la strada svaniva nel nulla sotto quell’acqua quasi nera, una specie di pianto della natura tradita dal calendario. Maggio inoltrato e totale assenza della primavera. Continuava ad attendere di fronte allo stabile, ma lei non ne usciva. Intanto provava a telefonarle più volte: squilli su squilli, a vuoto. Per un po’ chiamò alternativamente il cellulare di Daniela e quel numero che aveva trovato nel bagno. Il numero chiuso nel bagno. Il numero dell’inganno sussurrato nel bagno?
Infine si decise e telefonò allo studio di Giustiniani. Cominciava a sentire caldo, in quel lussuoso abitacolo.
«Dottore, mi scusi, sono Rossano Tommei, il marito di Daniela… Daniela Tommei.»
«Mi dica.» La voce del dottore era bassa e tesa ma giovanile. Sui quarant’anni? Forse anche cinquanta, Daniela non aveva mai saputo dirglielo, aveva soltanto detto che sembrava «abbastanza giovane e anche abbastanza vecchio.»
«La chiamo perché sono preoccupato. Mia moglie non dovrebbe sapere che l’ho chiamata… se le è possibile.»
Giustiniani sospirò: «D’accordo. Mi dica.»
«Vede, abbiamo litigato, e insomma, dottore, adesso non so dov’è. Mi ha detto che sarebbe venuta da lei…» Rossano ora sospettava, d’improvviso, che l’appuntamento di giovedì col dottor Giustiniani fosse stata un’invenzione della moglie: e infatti questo suo presentimento fu confermato subito.
«Sua moglie ha sospeso la cura più di due mesi fa…» Giustiniani s’interruppe. La sua voce si fece di colpo più chiara. «Forse non ne era a conoscenza?»
C’era qualcosa di lievemente maligno che covava in quella domanda. E il tono era di gentile insofferenza.
«Ma certo che lo sapevo. Solo che…» Rossano non sapeva come continuare.
«Cose che possono succedere», intervenne Giustiniani. «Non si preoccupi, comunque. Sua moglie non sta male.»
«Lo so.»
Una pausa. L’acqua non la finiva più di scrosciare, su tutto.
«Ha bisogno di lei, in sostanza. Le stia vicino. Tutto qui.» La voce del dottore era ritornata cupa.
«Certo, dottore. E mi scusi se l’ho importunata.»
«Ma le pare.»

In quell’istante smise di piovere. Una specie di miracolo, come se la pioggia avesse invertito la sua marcia vana e si fosse messa a scorrere impetuosa dal basso verso l’alto di quel gran brutto cielo nerofumo.
Passò una lunga settimana, durante la quale Tommei si fece centinaia di domande, spesso le stesse che semplice- mente si moltiplicavano ossessivamente l’una sull’altra. E di Daniela non v’era più traccia. Denunciarne la scomparsa alla polizia non gli sembrava sensato. Marilena, l’unica amica di Daniela non la volle interpellare. Non le piaceva, era lei che l’aveva convinta ad andare a farsi analizzare e il risultato alla fine era stato questo: una scomparsa nel buio del nulla.
Ogni tanto chiamava quel numero nero che aveva arraffato dal cellulare della moglie lasciato sul portasapone del suo bagno, ma sempre senza alcun risultato. Quel numero era libero, sempre libero. Era un numero vuoto.
Finalmente si decise a chiamare l’investigatore. L’aveva cercato a caso sulle Pagine Gialle Elettroniche. Gli era piaciuto quello strano nome, Guido Cravat. E soprattutto gli era piaciuto il fatto che – da informazioni assunte tramite un paio di telefonate all’avvocato Gemmò – quel Cravat era un investigatore di fresca autonomina. Aveva cominciato da meno di un mese, dunque aveva bisogno di ingranare, dunque sarebbe stato abbastanza malleabile e avrebbe fatto poche domande. D’altronde la sua situazione era alquanto delicata. Perché con la polizia non aveva alcuna intenzione di entrare in contatto, né ora né mai.
Gli telefonò otto giorni dopo la scomparsa della moglie, quando non ne poté più di aspettare.


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