La memoria della vite
Gabriel
«Uccidimi!»
«Cosa?»
«u-c-c-i-d-i-m-i, a-d-e-s-s-o!»
«Ma cazzo dici?»
«Zitto!»
Si acquattò come facevamo da piccoli dopo che mi aveva convinto a seguirla in qualche bambinata. Piegò la testa sulle mie gambe e appoggiò le braccia sulle mie cosce. La sua guancia sfiorò la mia pelle.
Penzolavamo seduti su un muretto malridotto che circondava un parco all’ombra di un salice molto grande. L’abbracciai d’istinto per proteggerla.
Mi accorsi che guardava altrove con la coda dell’occhio, verso il lato opposto della strada.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!», pronunciò senza respirare. Strinse le palpebre per non vedere, convinta che, nel buio, anche lei potesse essere trasparente, ma le riaprì subito.
«Ma cosa?», chiesi.
«Non deve vedermi!»
La sua voce si affievolì e nell’esaurirsi emise un verso simile allo squittio di un topo. Allora, rivolsi la mia attenzione verso la fonte della sua ansia.
Matteo Riversi camminava sul marciapiede di fronte a noi, mano nella mano a Francesca Modi, detta Modì, perché il soprannome era più allegro. Di allegro aveva molto, dicevano in tanti, e doveva essersene accorto anche Matteo che la portava a spasso con fare soddisfatto, come se la mostrasse al mondo.
Mi dispiacque per Sole e la scrutai con tenerezza. Matteo sembrava essere destinato a diventare il ragazzo della sua vita, colui per il quale aveva disseminato il diario di epigrafi fino al giorno prima, colorato i capelli di blu e forato i lobi per sembrare più attraente. Fortunatamente, ero riuscito a convincerla che un tatuaggio con la M di Matteo sul seno fosse troppo. Mi aspettai di vederla piangere a singhiozzi, come quella volta che avevamo perso gli ultimi biglietti per il concerto dei Måneskin all’Olimpico. La strinsi più forte.
«Che stronzo!», esclamai. «Mandalo affanculo! Ti sentirai meglio.»
Non parlava. Stava ripiegata su di me, accucciata, e respirava piano. Mi ricordai di un pomeriggio molto piovoso in cui eravamo rimasti rannicchiati sotto un nascondiglio ricavato con alcune coperte di lana trovate sulle sedie del suo salotto.
«Sole?», dissi. «Sai che devi fare con quello?»
Lei si alzò di scatto. «Cosa?», domandò con gli occhi vitrei fissi su di me e uno sguardo implorante di risposte sapienti.
«Devi mandarlo a cagare!»
Lei annuì con la testa ricoperta di capelli arruffati.
«Sì. Che si fotta!» ed esplose in una risata grassa e rumorosa che penso sentì anche Matteo mentre si allontanava.
Rimasi immobile, stupefatto dalla sua ripresa e mi venne da ridere con lei.
Sole era così, un po’ suicida, un po’ appassionata, un po’ matta.