La lingua della terra
I
Una mattina papà deve aver trovato lo straniero che dormiva nel casone.
Forse è stato all’inizio dell’estate, a San Giovanni. Quella volta che noi due eravamo andati a Oneglia per vedere il falò e lui invece s’era messo subito a letto, che l’indomani doveva andare presto ai Lüghéi per fare l’erba. Ma era stata una notte ventosa, e poi ci disse di non aver dormito molto. C’era stato vento, u ventu masciu, dice lui, quel vento che sbatte tutto. Quel vento che arriva come un intruso, come un ladro, come uno che torna a casa di fretta perché ha dimenticato qualcosa. Quel vento che non sai da dove arriva e dove va, viene e basta, quando c’è non puoi fare molto di più che aspettare che passi, sotto le coperte. E quella notte, il ventu masciu soffiò via tutto. Soffiò via gli orti, soffiò via i paiazui, soffiò via gli steccati, le tende, le canne, tutto. Soffiava via anche le montagne. E soffiò via anche la luna. Pure quella.
Sì, dev’essere stata quella notte che è arrivato lo straniero.
Noi, dietro agli amici quella sera eravamo rientrati tardi. Sulla porta, come accadeva in questi casi, avevamo trovato papà, serio, ad aspettarci: Uh! L’è l’ua chi arivai! Sciabrui! Duv’i sei andai! V’i daggu mi i faöi d’Ineja! Duman matin vegnì cun mi a rancà l’erba ai Lüghéi ! Ou belin! Come a dire: che era ora che arrivassimo. Che dove eravamo andati. Che ce li dava lui i fuochi di Oneglia. Che l’indomani mattina saremmo andati a togliere l’erba con lui ai Lüghéi.
Ma poi, come al solito, l’indomani non ci svegliò. E dormimmo fino a mezzogiorno.
Non era la prima volta che papà trovava qualcuno ai Lüghéi. Ma s’era sempre trattato di animali, gatti o cani randagi, arrivati da chissà dove e poi scomparsi nel nulla. Quella mattina, invece, nel casone, per terra, addormentato, c’era lui, lo straniero.
Ma papà non ci disse nulla. Non so perché. Eppure avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di farci andare ai Lüghéi. Tutte le volte che trovava in campagna un animale selvatico, poi, ce lo raccontava come un accadimento straordinario, quasi fosse la visita di un marziano.
Un giorno ci ha raccontato di aver preso una volpe. A vurpe a l’è fürba, diceva, a entra intu gainà inseme a mi… e pöi a s’aciata… Che la volpe è furba, che se non sta attento, entra nel pollaio insieme a lui quando apre per dare il mangime alle galline, e poi si nasconde, per restarci chiusa dentro. La notte, allora, indisturbata, fa razzia. Poi scava un buco per uscire. Che, da dentro, è più facile.
Ma lui l’aveva capito. Così, una volta, aveva preso le galline e le aveva chiuse nel casone. Al buio, zitte. Poi aveva fatto finta di entrare nel pollaio e aveva lasciato la porta aperta dietro di sé. Era rimasto dentro giusto il tempo che, di solito, impiega a cambiare l’acqua e dare il mangime ai polli. Non s’era mai voltato verso la porta. Quando era uscito, aveva chiuso: era sicuro di aver preso la volpe. Sapeva che lei doveva essere lì, nascosta da qualche parte; ferma, senza muoversi per non farsi scoprire.
Quella sera, a cena, c’aveva raccontato tutto. A sentirlo, noi ci pareva di vederla la volpe, con la sua coda avvolta sul muso, nascosta in un canto, dietro la porta. L’odiavamo, perché ci aveva ammazzato più volte le galline. Mio fratello l’avrebbe presa e impagliata. Io no, mi bastava cacciarla via. Così, quella mattina ci eravamo svegliati prestissimo per andare con lui ai Lüghéi a vederla. Poi però papà ci disse che era inutile ammazzarla. Prima o poi ne sarebbe arrivata un’altra. E poi un’altra ancora. Meglio essere più furbi di lei.
Ma quella mattina, guardammo nel casone, nella vasca, nel tröiju, niente. Non trovammo nulla: la volpe non c’era. Nessun buco era stato scavato. Non c’era più. E chissà se c’era mai stata. Passammo tutta la mattina a togliere l’erba. Era stato uno dei suoi trucchi: trovava sempre qualcosa, la volpe, i pulcini o Pesce Alberto; e noi ci facevamo abbindolare volentieri, cascavamo sempre nei suoi tranelli. Salvo poi, dopo aver scoperto che non c’era nulla, doverlo aiutare a zappare o a togliere l’erba.
I Lüghéi sono il regno di papà. Lui passa più tempo ai Lüghéi che a casa. Nella bella stagione parte la mattina presto e arriva la sera per cena. Potesse, ne sono sicuro, abiterebbe lì. E, forse, la parte di lui che torna a casa la sera per cena, non è proprio lui, è quella addomesticata. Quell’altra, quella che sente le lumache che brucano l’insalata e il rumore dei peschi quando aprono i fiori, abita ai Lüghéi. Mamma una volta mugugnava, ma ormai s’è abituata. Lui non lo fa per cattiveria. Lui è così. A volte penso che il solo motivo per cui papà torni a casa, la sera, siamo noi due: per convincerci ad andare ad aiutarlo l’indomani mattina.
Del resto, i Lüghéi sono proprio il suo mondo. Noi sappiamo che è lì. Quando vogliamo parlargli, dirgli qualcosa di importante, andiamo ai Lüghéi: e lui c’ascolta mentre lega i pomodori. Se qualcuno lo cerca – chiunque, il dottore, il commercialista, fosse pure il maresciallo – mamma lo manda ai Lüghéi.
Papà viene malvolentieri in paese. Quando abbiamo un appuntamento, spesso l’aspettiamo, ma lui tarda. Oppure, non viene nemmeno. Se deve andare dal dottore, dall’AAMAIE per l’acquedotto o all’inps, non viene. L’aspettiamo, mamma l’aspetta, e lui non viene. Fin da bambini: se doveva portarci al catechismo o quando doveva venire a scuola a parlare con i professori, o a vedere le nostre partite di pallone. Io giocavo portiere e guardavo più gli spalti che i cross degli attaccanti: l’avessi mai visto una volta. Ovunque, per qualsiasi cosa, la campagna viene prima. Tranne che in chiesa, alle prove del coro. Qualunque sia l’appuntamento, in qualunque luogo debba andare, ai Lüghéi c’è sempre qualcosa di più importante da fare.
A l’axevu da ciantà e fave, Avevo da piantare le fave, dice poi, oppure, Duxevu mette e scarase ae pumate, Doveva mettere le canne ai pomodori, o precisa, A puavu u persegu, Gh’eia da aiguà, da tacà u mutùe pe’ girandule, Potavo il pesco, o c’era da innaffiare, da accendere il motore per le girandole.