La laguna dei sogni sbagliati
Prologo
Alessandro Onofri era appoggiato a ciò che rimaneva degli uffici amministrativi dell’acciaieria. Il complesso era stato colpito così duramente che il cemento si era fuso creando un manufatto nuovo, irto di monconi di metallo, che già volgevano alla ruggine. Quello che rimaneva dell’interno – erano stati mobili, porte, armadi, schedari? – era un grumo di materiale irriconoscibile.
Un fumo oleoso si mescolava al puzzo dei cadaveri tra i guaiti dei cani. Prima o poi tutta la città fumante si sarebbe raffreddata e, quando fosse calata anche la polvere, avrebbe assunto l’aspetto della rocca di Troia, di Cartagine, di Dresda annichilita. Un senso di libri morti della biblioteca d’Alessandria aleggiava per le strade della città o quello che ne rimaneva.
Appoggiato alle mura carbonizzate, si sentiva inquieto e aveva visto troppe guerre per sottovalutare quel sentimento.
«Non sembrano nazisti», commentò la giornalista dai capelli biondi che fuoriuscivano dall’elmetto di kevlar, facendo cenno all’operatore di riprendere.
«Davvero?», replicò Alessandro indicando il sergente inginocchiato davanti al miliziano filorusso. Si era sfilato la camicia stracciata e la Totenkopf sul petto sembrava irriderli nell’alba livida. Gli altri tatuaggi azzurri, rune e scritte in cirillico, gli dicevano poco, non gli piacevano.
«Ma dai! Pensa ai nazistelli di casa nostra che al massimo lottano per evitare la retrocessione della squadra del cuore.»
«E quello?» Ale indicò un altro soldato, un colosso dalla lunga barba che si sforzava di tenere alta la testa malgrado il braccio amputato di fresco, appena sopra il gomito. La spalla sana era tutta coperta da un ritratto di Stepan Bandera, l’ultranazionalista, in divisa da SS.
«Sono patrioti», rispose lei meno convinta.
«Andiamocene: è solo una parata di vincitori e vinti.» Si staccò dalla parete dirigendosi verso la Jeep.
«Sei noioso, Alessandro. Abbiamo venduto l’anima per arrivare fino a qui…»
«Hai ragione, però…», non sapeva come dirlo, era irrazionale ma regnava quell’assoluta quiete di cui aveva imparato a diffidare.
Voleva battersela anche perché aveva visto un mercenario del gruppo Wagner che conosceva, non aveva voglia di parlarci e quello invece si stava già sbracciando come se avesse ritrovato un compagno di scuola. Dove si erano incontrati? Siria… Già, erano saliti assieme su un trasporto alla periferia di Aleppo e quello gli aveva chiesto se avesse perso le armi.
«Videoreporter», si era giustificato estraendo la macchina fotografica dallo zaino. L’altro aveva riso.
«Qui no giornalisti, no embedded. Serve questo!» e gli aveva mostrato l’AK-47. Era ubriaco e l’aveva preso in simpatia, Ale si era sorbito ore di racconti di scontri con l’Isis, lunghi come poemi indiani e mortalmente noiosi.
«Maledizione, comincio a conoscere più mercenari che giornalisti: prima o poi tutto questo sangue mi salirà alla testa», bofonchiò tra sé.
Questo paese era diverso dalla Siria: ci capitavano anche le star delle trasmissioni televisive, certo qualche bomba troppo vicina li faceva sussultare – «Succede a tutti», ammise controvoglia –, ma entrambi i contendenti erano ben disposti ad accogliere chiunque volesse documentare le atrocità dell’altro. Però… a volte sembrava di essere a un party con giubbotto antiproiettile ed elmetto come dress code al posto della cravatta nera. Il Medio Oriente era un’altra cosa, uno stillicidio di morti, senza volto, che da tempo non meritavano più nemmeno l’ultima pagina dei giornali.
A questo pensava, disattento, quando la terra fiorì attorno a loro. Era stato un colpo di mortaio sgraziato, tirato da una distanza eccessiva, più l’abbaiare svogliato di un grosso cane che un assalto vero e proprio. Tuttavia un tiro fortunato. Mentre le schegge ronzavano come mosche di ossidiana e ancora le zolle volteggiavano come se fossero indecise se precipitare o meno, il tempo si mosse a un’altra velocità, frame by frame. Ale si vide dall’esterno: un altro lui afferrava la ragazza che si accasciava come colpita da un gancio al mento, se la issava in spalla mentre l’elmetto male allacciato volava via. Lei urlava di dolore, lui urlava all’autista di partire, il cameraman urlava di paura, ma nessuno sentiva niente con i timpani ancora gonfi per l’esplosione.