“La lacrima della giovane comunista” sul Corriere della Sera
La lacrima della giovane comunista 1
È ambientato nella Russia post-sovietica l’avvincente e convincente romanzo, fra thriller e spy-story, «La lacrima della giovane comunista», Arkadia Editore, pp. 177, € 15,00, firmato da Giorgio Bona (1956), scrittore non nuovo alla narrativa “gialla”, se il risvolto di copertina lo presenta autore di numerosi articoli su “Thriller Magazine”.
Il protagonista, e voce narrante, è un professore genovese, slavista, dell’università del Piemonte orientale, che si impegna a far luce sulla tragica esistenza dello scrittore russo Venedikt Erofeev (1938-1990), dopo che ha ricevuto da un suo amico, Viktor Demanenko, portavoce del console russo di Genova, in procinto di tornare, controvoglia, in Russia, un ultimo regalo, «un’edizione russa, preziosa e introvabile», un «reperto di un grande scrittore russo che – aggiunge Demanenko – la storia non vuole riconoscere», Venedikt Erofeev: il suo capolavoro, «Mosca-Petuški», al quale «mancava qualche pagina e alcune non si riuscivano a leggere, come se fosse stato salvato dal macero o dalla censura degli anni duri del regime».
Con la promessa a Demanenko che sarebbe andato a trovarlo, quasi subito il professore parte da Milano per Mosca su una carrozza della Freccia dell’Est. All’arrivo, l’impatto con la Mosca post-comunista è sconcertante. Memore di una città diversa, conosciuta in visite precedenti, ora nota che si era del tutto occidentalizzata nel traffico e che non l’aveva «mai trovata così sporca Mosca. Provai molta tristezza nel vedere come era peggiorata in questi ultimi anni: sembrava avere smarrito la sua dignitosa facciata di grande efficienza, aveva quasi, per così dire, cambiato aspetto».
La lacrima della giovane comunista 2
Per le sue ricerche spera nell’aiuto di un paio di amici: Ivan, brillante giornalista ormai in pensione, «uno dei privilegiati durante il comunismo», che aveva lavorato anche alla “Literaturnaja Gazeta”, e Olga, una bella ragazza dalla «testa dorata» e dalle «gambe scultoree», dal passato famigliare molto tormentato. Ma, quando li incontrerà, resterà deluso di entrambi. Infatti, Ivan confessa che non può essergli di aiuto perché quell’Erofeev non l’ha mai sentito nominare e che non lo conoscono «nemmeno gli addetti ai lavori», e da Olga «non una parola su Erofeev», nonostante parlassero «a lungo della Russia della grande svolta, del nuovo corso e di come la situazione era peggiorata», come, in mancanza di soldi, poter comprare le scarpe restasse «il miraggio di molti», di come Eltsin avesse venduto i russi agli americani «per una mazzetta di dollari», che la roba si trovava a prezzi inaccessibili e ai russi facevano «mangiare tutti gli scarti che l’occidente non può digerire». Solo in un colloquio successivo Olga dirà di credere che Erofeev allora non godesse «dei vantaggi di cui godono gli scrittori della sua generazione, ora completamente riabilitati dalla politica del nuovo corso».
Un consiglio, però, Olga glielo dà: di recarsi alla Cooperativa Scrittori di Pederelkino, il villaggio di dacie degli scrittori sovietici nei sobborghi di Mosca. Qui, il professore vince facilmente la ritrosia di una segretaria facendole scivolare nelle mani una banconota da cinquanta dollari (eloquente il commento: «Basta far correre la moneta e puoi comprarti la Russia») e riesce a consultare lo schedario, dove trova un fascicolo dedicato a Erofeev. Lo sfoglia, lo legge e apprende che Venedikt Erofeev era stato uno scrittore “maledetto”, che già «sembrava portare nell’etimologia del proprio nome lo stigma del suo profondo destino». Infatti, «in russo “Erofeiv” significa alcolizzato». Preso dalla lettura di quei documenti, decide di trafugarli.
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Raccattando notizie qua e là, il professore vuole andare fino in fondo: cercare, a Petuški, l’amica intima di Erofeev, Tonia Petrova, per raccoglierne la testimonianza. E lei, quando lo vede, lo accoglie come «un angelo del Signore». «Sei il primo – gli dice – a cui racconto questa storia. Sei italiano e mi piacciono gli italiani. Piacevano anche a Venja. Lui era capace di creare, di inventare, di giocare con le parole. Questo entusiasmo, la fantasia, la voglia di creare l’hanno debellata come si fa con un brutto male. Ti avvelenano il sangue. Era caduto in un coma profondo dove scrivere era diventato impossibile. […]. Tutto questo lo aveva portato al disprezzo di sé. Se non poteva essere uno scrittore, nient’altro poteva accendere il suo entusiasmo».
Siamo nella Russia del “disgelo”, dunque in un clima che si immaginerebbe rischiarato dagli effetti della perestrojka e della glasnost promosse da Gorbaciov. Invece, il professore entra in contatto con una realtà torbida, minacciosa, insidiosa, terribilmente legata a un passato ancora recente, angosciato da diffidenza e paura. Perché in ognuno poteva celarsi un diavolo. Tale si rivelerà l’inquietante personaggio Arkadij Antropov, che sale sul treno alla stazione di Budapest, si installa nello stesso scompartimento del professore, dichiara di lavorare come funzionario presso il Ministero della Cultura di Mosca e, ai saluti finali, invita il suo compagno di viaggio a fargli visita in quella sede.
Così farà, il professore. Ma proverà sulla propria pelle come rispetto alla Russia sovietica inalterato fosse rimasto il ferreo sistema di controllo sociale, poliziesco, illiberale, antidemocratico, della Russia post-eltsiniana, cioè putiniana.
Paolo Fai
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