“La lacrima della giovane comunista” su Storygenius.it
“La lacrima della giovane comunista” con Giorgio Bona
DENTRO LA LAMPADA, INTERVISTE
Parla l’autore di un romanzo che racconta un viaggio alla ricerca di uno scrittore russo, Venedikt Erofeev, tra vecchio corso sovietico e nuovo ordine dopo la caduta dell’Urss.
È in libreria da qualche tempo un romanzo scritto da Giorgio Bona, che racconta la Russia subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’inizio del nuovo regime che si instaura a Mosca in quegli anni, s’intitola La lacrima della giovane comunista (Arkadia 2022) e mi sembra tornato di grande attualità proprio in questi giorni, mentre le notizie della guerra tra Russia e Ucraina si sono andate complicando con il colpo di mano di Evgenij Prigozhin, che ha prima marciato verso la capitale poi si è ritirato. Il tutto condito da un senso di doppiezza e mistero, intrighi e furbizie, la perdurante sensazione che nulla sia come sembra e tutto possa essere infido e pericoloso. La storia in breve: un professore universitario italiano, che di mestiere fa lo slavista, segue le tracce di uno scrittore russo dissidente, Venedikt Erofeev, e di un suo romanzo che resta oscurato anche dopo la fine della dittatura. Penso che valga proprio la pena fare quattro chiacchiere con il suo autore.
Chi è Venedikt Erofeev, autore del libro che il tuo protagonista va cercando dall’Italia in Russia, attraversando l’Europa dell’est?
Venedikt Erofeev è diventato un autore cult della letteratura russa dopo la morte. Il suo successo si realizzò attraverso canali clandestini che lo portarono a essere tradotto in 27 paesi prima di essere pubblicato in Unione Sovietica. Il padre fu arrestato per aver raccontato una barzelletta su Stalin e fu deportato per cinque anni in un campo di lavoro. La madre, non potendo accudire i figli, trasferì Venedikt e il fratello in orfanotrofio. Venedikt dimostrò subito una grande sensibilità per la letteratura ed entrò all’università di Mosca facendosi apprezzare come studente modello fino all’espulsione per aver scritto una satira sulla presidente del Komsomol. Da quel momento visse nei bassifondi della società russa dormendo sui treni in transito della stazione Kursk per otto anni in preda all’etilismo. Scrisse moltissimo ma dei suoi scritti si salvò poco. Il suo libro più famoso fu Mosca-Petuski. Morì in seguito a un tumore alla laringe a 52 anni. Negli ultimi anni della sua vita parlava con un microfono alla gola dove usciva una voce metallica e stridula.
Quanto c’è di vero in questa storia?
Questa storia parte da una vicenda vera. Negli anni ’70 lessi la traduzione italiana di Mosca-Petuški, un libro che mi contagiò profondamente. Nel 1981 ero a Mosca a frequentare un corso di russo. Erano gli ultimi anni del socialismo reale e al governo c’era Leonid Breznev. Chiesi al mio amico Ivan, giornalista in pensione della Literaturnaja Gazeta se aveva notizie che riguardavano Venedikt Erofeev perché volevo comprarmi i suoi libri in lingua originale. Disse di non conoscere nulla e di non averlo mai sentito nominare. Il problema si presentò dieci anni più tardi ed eravamo nell’epoca in cui c’era Eltzin al governo ed era in atto la politica di rinnovamento. La risposta fu tale e quale a dieci anni prima. Questo è stato il viatico per iniziare una storia che avevo in testa da tempo. La ricerca di Erofeev scomparso nei meandri della società socialista e che non rientrava in quegli autori per così dire “riabilitati” dalla politica del nuovo corso. Un’indagine in una società che stava cambiando e chi meglio di una figura come il protagonista del mio libro, uno slavista profondo conoscitore e appassionato di letteratura russa, poteva fare?
Proprio all’inizio del tuo testo un personaggio dice: “La letteratura caro professore non è sufficiente. Perché la letteratura è una forma di conoscenza in più che va oltre la nostra esistenza. È per questo che scrivi?
Forse scrivere è un’arte e l’arte è una missione. Io sono fermamente convinto che la letteratura serva a riscattare fatti e personaggi che la storia con il tempo potrebbe cancellare. Certo, la letteratura ha il dovere di conservare una grande identità, e allora può dare la risposta a tantissime cose.
Che cos’è per te la Russia?
La Russia potrei facilmente dire che è un luogo dell’anima e chiuderla qui. Un paese si ama per la sua lingua e per la sua letteratura. E io ho addirittura incominciato gli studi della lingua per affrontare la lettura di poeti straordinari come Osip Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Sergej Esenin, Velimir Chebnikov e Anna Achmatova. Poeti che dovevo assolutamente conoscere nella loro lingua. Perché? Come diceva Dostoevskij, per citare un grande della letteratura di quel paese, c’è sempre qualcosa di intrasportabile da una lingua a un’altra, qualcosa che nella lingua tradotta si perde rispetto all’originale. Lo diceva a proposito di un’opera di Gogol’ tradotta in francese, perché in francese si perdeva sempre quella sottile ilarità che è presente e indispensabile nella letteratura russa e che non rende in un’altra lingua. Ecco allora che la lingua diventa un fiume sotterraneo, che viaggia sottopelle, come i versi di quei poeti amati. Proprio Venedikt Erofeev diceva che un paese che non ha radici letterarie è un paese alla deriva, come un ubriaco abbandonato sul ciglio di un marciapiede.
È una nazione che si alimenta anche di grande letteratura, e nel tuo romanzo si vive anche questo. Come fa l’arte a convivere con il terrore dell’apparato poliziesco dell’Unione Sovietica o con la repressione strisciante del nuovo corso che racconti?
Il potere è una forma di arroganza che agisce con forza e ha paura di una sola cosa: la parola. La parola può far male, è un’arma di distruzione di massa se usata in maniera impropria. Ma può essere rivoluzionaria se diventa una forma di lotta, può scatenare la rabbia e può davvero essere una proposta vera per chi ha la capacità e la voglia di ascoltare. Marina Cvetaeva scrisse una lettera a Berja, il capo della polizia sovietica, in favore del marito arrestato per attività antisovietica e per la figlia Alja, anche lei arrestata per questo motivo. Berja sembra che, da quella lettera scritta con una dignità di una spudoratezza tale, ne rimase turbato e ordinò la fucilazione dell’uomo, che venne passato alle armi. Il potere tende a narcotizzare la letteratura, ma la parola scava e lascia il segno. Rimane.
La storia che hai scritto può servire soltanto a illuminare i fatti passati oppure anche la situazione attuale, la guerra che si sta svolgendo in questi giorni?
C’è un preludio che si apre verso la Russia che vediamo adesso. Il mio romanzo è ambientato all’inizio del cambiamento, siamo nel 1990. In quegli anni la riforma Gorbacioviana doveva portare un cambiamento nel paese e doveva avvenire gradatamente altrimenti l’impatto sarebbe stato terribile. La Russia attuale, quella putiniana per intenderci, è figlia del più sfrenato neoliberismo. Si pensava a un processo più calvinista, meno indolore, dove il popolo avesse un suo riconoscimento. Non è stato così. Anche questa forma di potere ha narcotizzato la letteratura dove tutti, intellettuali e scrittori, si sono adoperati a parlare del grande mutamento in atto, anche quegli autori che prima esaltavano il socialismo reale.
Esiste davvero il cocktail che dà il titolo al romanzo “La lacrima della giovane comunista”? E tu l’hai mai assaggiato?
Intanto il titolo introduce il lettore dentro un romanzo a tasso alcolico elevato e non solo per il nostro incredibile autore, ma anche perché il protagonista spesso e volentieri tende ad alzare il gomito. Ma in un’atmosfera come questa poteva essere da meno?
La lacrima della giovane comunista è un cocktail, possiamo definirla una preparazione alcolica surreale formata in gran parte da vodka, acqua di colonia, lozione antiforfora, unghiolina, deodorante per i piedi e se possibile qualche foglia di verbena. Erofeev parlava di questo cocktail per i brindisi delle grandi occasioni.
Io non l’ho mai provata ma confesso che potrei assaggiarla soltanto se fosse aromatizzata con la verbena, altrimenti rinuncio e passo il calice.
Mi sembra che una delle questioni che emerge sia quella dell’impossibilità di sapere la verità su un avvenimento, anche sulla vita di una persona. Un personaggio a un certo punto parla di Venedikt Erofeev: “Chi ti dice che le notizie su di lui siano false? Magari la sua è soltanto una miseria apparente, lui adesso conduce una vita agiata e vive nel lusso”. Quindi in certe situazioni è possibile tutto e il contrario di tutto?
C’è un depistaggio per allontanare la verità e la verità non sempre viene a galla. Ma occorre essere preparati alle sconfitte, non rassegnarsi mai. Il protagonista del libro è un intellettuale che all’occorrenza si trasforma nel suo piccolo anche in un uomo d’azione e non si tira indietro davanti al pericolo. C’è una ragione in tutto questo? Sì perché il mio protagonista, come Erofeev, è l’opposto del personaggio che mira a costruire una carriera, attento a conservare con scrupolo ogni passo della propria azione. Con dignità e coraggio.
A un certo punto scrivi: “Forse non vaneggiava Bulgakov quando vide il diavolo a Mosca. Credo che qui sia rimasto, non si sia mai allontanato”.
Nel romanzo di Bulgakov Il maestro e margherita il diavolo apparve per la prima a volta a Mosca presso gli Stagni del patriarca, dove i suoi giardini diventarono negli anni a venire un luogo cult della capitale. Era uno di quegli angoli che mi avevano affascinato di più e ci passai tre ore di un pomeriggio consumando gelati venduti da un ambulante con un piccolo carretto dopo aver fatto lunghissime code. Rimasi lì perché mi sembrava di respirare quell’aria rarefatta e solenne che aveva animato il grande scrittore russo. Al mio protagonista feci fare il medesimo percorso, ricostruendo la coda che io avevo fatto per acquistare il gelato. Anche lui consuma un gelato mentre incontra il suo interlocutore che depistava la sua ricerca. Ecco allora il diavolo pronto a identificarsi con la menzogna, la rovina del mondo. Forse il diavolo non lo troviamo soltanto a Mosca, ma qui se ne avvertiva la presenza grazie a chi gli aveva dato vita, ovvero Michail Bulgakov.
Per ultimo, usiamo un paradosso: se un professore russo facesse un viaggio al contrario di quello descritto nel tuo libro, alla ricerca di uno scrittore occidentale dimenticato o scomodo, secondo te che romanzo ne verrebbe fuori?
Il mio protagonista arriva a Mosca in seguito a un rocambolesco viaggio in treno. Il treno ha un significato particolare nella letteratura russa perché non rappresenta soltanto un mezzo di spostamento, ma un luogo dove avvengono moltissime cose: si incontrano le persone più stravaganti, si dialoga, si raccontano i sogni, si condivide il cibo e, perché no, anche una bevuta e una bella sbronza. I viaggiatori tra loro non si conoscono e questo agevola le confidenze. Nessun mezzo di trasporto è così pieno di significati come il treno e scrittori come Tolstoj e Dostoevskij lo vedono come una metafora della società. Anche In Mosca-Petuški di Venedikt Erofeev c’è un viaggio in treno che annulla spazio e tempo, sospeso nella disgressione delle stazioni attraversate tra sbronze esilaranti, stati di angoscia e di abbandono, colpi improvvisi di genio e di felicità. Io non riuscirei a vedere un protagonista che fa un viaggio a ritroso per venire in Occidente confrontandosi con le realtà che racconto perché forse non le incontrerebbe. Mi piacerebbe però che qualcuno provasse a farlo e sarei curioso di sapere cosa ne può venire fuori. Stiamo pronti. In alto i calici e intanto brindiamo con La lacrima della giovane comunista.
Paolo Restuccia
Il link all’intervista su Storygenius.it: http://bitly.ws/K4Eq