“La lacrima della giovane comunista” su Lavoro e Salute
Giorgio Bona ha appena pubblicato per l’Editrice Arkadia il suo nuovo romanzo: La lacrima della giovane comunista. Ne abbiamo approfittato per porgli alcune domande in merito a questa sua ultima fatica.
A. D. I tuoi ultimi due romanzi avevano un impianto storico sociale. In La lacrima della Giovane comunista hai deciso di darti al canone del noir. Puoi dirci cosa ti ha spinto a questo cambiamento di registro nella tua narrazione?
G. B. Tutto ebbe inizio quando lessi Mosca sulla vodka di Venedikt Erofeev, l’autore russo cui il libro è dedicato, pubblicato a metà degli anni 70 dall’editore Feltrinelli. Non si avevano notizie sulla vita di questo straordinario scrittore che sembrava inghiottito nel nulla. Qualche anno dopo, era il 1981, a Mosca, cercai sue notizie e qualche traccia della sua opera. Erano gli ultimi anni del socialismo reale e c’era ancora Breznev capo del governo. Chiesi informazioni a un caro amico giornalista che disse di non conoscerlo. Il sospetto che non fosse sincero mi balenò nella mente così a lungo da non farmi desistere. Fu un buon viatico. Tutto cominciò da lì. Un romanzo che ha preso corpo nella mente ed è rimasto in cassaforte per molto tempo. L’io narrante di questa storia nella figura di uno slavista appassionato, un professore universitario, parte improvvisamente per Mosca e si mette sulle tracce di Erofeev nel periodo appena successivo alla caduta del muro, in una città e in una realtà dove sono ancora evidenti gli strascichi degli anni precedenti. E il viaggio avviene in treno perché il treno ha un significato profondo nella cultura russa, perché non rappresenta soltanto uno spostamento, ma è un luogo dove accadono molte cose: si incontrano le persone più stravaganti, si dialoga, si raccontano i sogni, ci si scambia informazioni, si condivide il cibo e, perché no, anche una bevuta e una bella sbronza. I viaggiatori tra loro non si conoscono e questo agevola le confidenze. Nessun mezzo di trasporto è così pieno di significati come il treno. Si possono raccontare anche i risvolti più intimi della propria vita. Scrittori come Tolstoj e Dostoevskj lo vedono come una metafora della società e ha un ruolo ponderante nella letteratura russa. Anche il romanzo poema Mosca-Petuski di Venedikt Erofeev è un viaggio in treno che annulla spazio e tempo, sospeso nella disgressione delle stazioni attraversate tra sbronze esilaranti, stati di abbandono e di angoscia, colpi improvvisi di genio e di felicità, con trovate sorprendenti e meditazioni poetiche. Il treno è parte della vita di Erofeev. Per un periodo lunghissimo è stato un letto dove dormire, un rifugio per passare la notte, ma anche un simbolo tragico della sua esistenza. Anche il viaggio del protagonista del mio romanzo inizia su un treno e si chiude con un treno. Forse ho scritto, senza pormi il problema, un romanzo tipicamente russo. Qualcuno me lo ha fatto notare e devo dire che per me è motivo di orgoglio e lo considero un complimento.
A. D. Il tuo rapporto con la letteratura russa e anche con alcuni luoghi in cui l’azione si svolge non sono certo d’occasione. Puoi parlarci un poco di questo retroterra fertile con cui, forse, stavi meditando da un poco un ricongiungimento creativo?
G. B. La passione per la letteratura russa risale ai primi anni del mio percorso universitario tanto che mi iscrissi a un corso di lingua russa soprattutto con l’intenzione di affrontare la lettura dei grandi poeti come Osip Mandelstam, Marina Cvetaeva, Velemir Chebnikov, Anna Achmatova e Sergej Esenin in lingua originale. I poeti vanno letti nella loro lingua. Come diceva Dostoevskj in “Diario di uno scrittore” c’è sempre qualcosa di intrasportabile da una lingua ad un’altra che non si riesce a far rendere nei suoi aspetti e significati più profondi. Si riferiva a una traduzione di Gogol in francese che non poteva trasmettere quel senso di sottile ilarità e comicità profonda che rendeva soltanto nella lingua originale. Ecco allora che la lingua diventa un fiume sotterraneo, che viaggia sottopelle, come i versi di quei poeti amati. Nel 1981 a Mosca comprai l’opera completa di Sergej Esenin e Marina Cvetaeva, poeti, si racconta, che avevano gli abiti lacerati come la loro anima. Ma la loro opera si trovava, circolava. Chi ha detto che la Russia non amava i suoi poeti? Quante volte mi tornava in mente L’uomo nero di Sergei Esenin e ripetevo quei versi nella loro lingua perché erano di una bellezza e di uno slancio primordiale. Proprio Venedikt Erofeev sosteneva che un paese che non ha radici letterarie è un paese alla deriva, dormiente, come un ubriaco abbandonato sul ciglio di un marciapiede. C’era già qualcosa che mi portava verso il suo grande approccio alla letteratura. In una intervista un suo compagno di bevute diceva: ci svegliavamo la mattina e litigavamo per decidere che dovesse andare a prendere da bere. Per riuscire a decidere abbiamo cominciato una competizione letteraria che consisteva nel recitare i propri poeti preferiti senza fare errori. Recitavamo continuamente e quando uno di noi incespicava o commetteva un errore, allora doveva andare allo spaccio a comprare da bere. Per così dire, senza pretesa di fare accostamenti impropri e dire bestemmie, anche io ebbi questa folgorazione come Erofeev quando si avvicinò, dopo l’espulsione dall’università per aver scritto una satira contro la segretaria del Kom’somol (la gioventù comunista), con una passione travolgente rivolta ai poeti proibiti del regime come Osip Mandelstam e Marina Cvetaeva.
A. D. Al centro del romanzo c’è la figura mitica e fantasmatica di Venedikt Erofeev, uno scrittore di culto anche se non famosissimo da noi. In realtà la bella traduzione di Mosca-Petuski, fatta qualche tempo fa da Paolo Nori, aveva destato molto interesse. Perché hai deciso di ambientare la tua storia nel problematico passaggio d’epoca tra la fine del collettivismo burocratico e la “Russia in vendita” del nuovo corso eltsiniano?
G. B. Erofeev è l’opposto dello scrittore che mira a programmare e organizzare una carriera, intento a conservare con scrupolo e attenzione ogni passo della propria scrittura. La rovinosa catastrofe di Erofeev che perde i suoi manoscritti in preda a deliranti crisi etiliche diventò leggenda. Era una sua abitudine smarrire i manoscritti, venderli per pochi rubli o in cambio di una bottiglia e disinteressarsene. Mosca-Petuski fu venduto per pochi rubli a un collezionista di samizdat e soltanto per caso un amico ne intuì il valore e lo fece trascrivere in una notte prima di restituirlo all’autore. Perdecenni Erofeev, pur essendo una persona in carne ed ossa e pur scrivendo testi reali, era come se non fosse mai esistito. La sua figura
non si materializza in questa storia ma diventa mito, leggenda. Naturalmente dopo la sua morte. Anche il protagonista del romanzo obbedisce come Erofeev agli slanci della coscienza con energia, rasentando inconsapevolmente il baratro di un incubo, camminando su una corda ad occhi chiusi sopra un precipizio. È il viaggio di un eretico che rimanda al suo alterego il mistero, la poesia e il bisogno di una rivolta. Un uomo in bilico che nella sua lucidità e nella sua follia ritrova equilibrio dentro una disperazione assoluta. Prima che uscisse in Unione Sovietica, molti editori si adoperarono per la sua traduzione. Francese, italiano, spagnolo, versioni ceke, polacche, la sua opera entrò in moltissime librerie europee e d’oltre oceano. Se alla fine di questa storia sono riuscito a lasciare nella memoria del lettore una scia di grande complicità, di trascinarlo dentro questo viaggio così come Erofeev ha trascinato me, se ci fosse un effetto di ritorno raggiungendo i lettori che mi hanno trovato sarebbe bello che mi comunicassero quanto io mi aspetto, ecco, potrei dire: missione compiuta. La felicità sarebbe totale perché la prima grande gioia mi toccava nel momento della stesura di questo romanzo e cresceva man mano che procedevo Non avrei voluto mai scrivere la parola fine perché dentro ci stavo bene, perché appena ne uscivo sentivo di aver lasciato qualcosa, spento una luce per tornare a camminare nella penombra.
A. D. La lacrima della giovane comunista è sicuramente un romanzo ad alto tasso alcolico. Non si tratta del semplice recupero della ricetta segreta del micidiale cocktail di Erofeev per designare il titolo del lavoro, ma di continui riferimenti, ruminazioni, ossessioni dominati dall’uso via via più intenso della sostanza alcoolica, sino al climax drammatico delle ultime pagine. In fondo il lettore è avvertito sin dall’esergo in cui richiami il rapporto col bicchiere di Valerio Evangelisti a sorvegliare l’intera vicenda. Come hai affrontato il rapporto con questo topos letterario, questa eterna occasione per lenire e rendere lucida la mente?
G. B. Come riconosce il regista polacco Pawlikowski, autore di un documentario di 42 minuti, un prodotto artistico straordinario e incredibile che percorre le tracce di Venedikt Erofeev nella capitale russa nel periodo successivo alla caduta del muro, mostrando il risvolto tragico degli anni precedenti, riconosce nell’autore russo il figlio di un paese destalinizzato dove l’intellettuale è bloccato tra il rigore del regime e il peso insostenibile del passato letterario. Questa empasse trova una via d’uscita nell’alcol perché alzare il tasso etilico genera vitalità e forza per raggiungere onnipotenza letteraria rivisitando i grandi del passato, anche perché, in quella condizione, uno se li trova davanti, ne può parlare bene o male. La vertigine di Erofeev è l’estasi alcolica Un autore che sembra portare nell’etimologia del proprio nome lo stigma del suo futuro destino: Erofeiv. in russo significa alcolizzato. Bere è un modo tragico e nello stesso tempo divertente per perdersi completamente, un modo rapido per arrivare a un punto d’arrivo finale: quello della propria distruzione. La sfida al sistema di Erofeev è prima di tutto una sfida contro la proibizione dell’alcol. Nel dopoguerra si formò in Russia una cultura del consumo di alcol dove il bere non si limitava soltanto ai giorni festivi per brindisi e feste, ma si allargava anche alle giornate lavorative e avveniva nei luoghi di lavoro. Un consumo che aumentò durante il periodo dell’ottepel (disgelo) e della zastoj (stagnazione). La lacrima della giovane comunista è il titolo del libro e prende spunto da Mosca-Petuski che in questo fantomatico viaggio in treno, nel suo elogio alle sane bevute, la lacrima della giovane comunista è una preparazione alcolica surreale composta da vodka, acqua di colonia, lozione antiforfora, deodorante per i piedi e, se possibile, un po’ di verbena. dove il grottesco non si discosta poi così tanto dalla realtà. Pawlikowski, al contrario del professore nella mia storia, riuscì a trovare Erofeev al tredicesimo piano, interno 78 di un vecchio casermone di edilizia popolare. Il documentario racconta di una signora anziana che non sapeva del suo status di scrittore e soltanto in quell’anno, era il 1990, anno della sua morte per un tumore alla laringe che lo costrinse per diversi anni a parlare con un microfono puntato in gola, si resero conto che non avevano a che fare con un povero ubriacone e che era un illustre letterato.
A. D. Il potere fa quel che vuole con arroganza. Per Erofeev la marginalizzazione ha attraversato le ideologie perché la sua scrittura era evidentemente scomoda per tutti. Nel tuo romanzo a rendere in qualche modo giustizia alla storia travagliatissima, penosa e grandiosa a un tempo dello scrittore russo ci pensa un professore italiano, detective suo malgrado. La sua vittoria, in fondo, sta nel togliere dall’oblio una sofferenza attraverso l’incontro di altri sofferenti che l’anno conosciuto. Tra ruffiani, tirapiedi e doppiogiochisti sembra più potente l’ombra lunga dello scrittore russo che desiderava vedere il suo romanzo venduto al prezzo di una bottiglia di vodka…
G. B. Un io narrante nella figura di uno slavista, sicuramente non un barone universitario ma un personaggio che porta dentro di sé una grande passione. Non era difficile immaginare uno dei tanti scritti smarriti da Erofeev per creare una condizione di samizdat. Come diceva Vladimir Murav’ev amico di Erofeev e testimone della sua opera “ognuno ha un sottosuolo nell’anima e Venedikt giocava con le forze oscure che uscivano dal sottosuolo della sua anima. Ecco è quello che accade all’io narrante di questa storia che come Venedikt gioca con forze oscure a cominciare dall’inizio del suo viaggio in treno dove cominciano ad aleggiare spiriti che si materializzeranno anche dopo. Un io narrante quindi che va alla ricerca di Erofeev nella capitale russa, nei bassifondi, ma anche nei luoghi più letterari. Non a caso la descrizione della Malaja Bronnaja, uno dei luoghi cult della capitale dove nel romanzo di Bulgakov apparve per la prima volta il diavolo a Mosca. Oppure sulla Via Arbat, l’anima della città un tempo la via dei cortili e luogo d’incontro della grande letteratura e ritrovo dei cantori come Bulat Okudžava. Ma quello che lo porta più vicino all’esito della sua missione è la frequenza nei bassifondi di una società, quei bassifondi scelti da Eroffeev, dove stare ai margini della società non significava vivere da reietto, ma da uomo libero. Anche per questo andò via dall’università rifiutandosi di partecipare alle lezioni di educazione militare paragonandole alle pratiche del regime nazista. Posso chiudere qui dicendo che alla fine il mio romanzo avrebbe la presunzione di sfidare i muri della coscienza pervaso dall’ideologia di un viaggio delirante e passionale. Manca un febbrile delirio alcolico, ma al mio protagonista non è necessario bere per smarrirsi dentro un mondo drammatico e vedere un puntino luminoso all’orizzonte anche se si trova sulla soglia di una distruzione. Il mio protagonista scopre le carte e mentre gli altri le nascondono, lui senza mezze misure le svela. Come dice Erofeev: in questo silenzio il vostro cuore potrà parlare. È insondabile, mentre noi siamo impotenti. E allora, come Venedikt, io mi chiedo: perché la vita umana non è forse un ciclone dell’anima? È come se tutti noi fossimo ubriachi, soltanto ognuno per conto suo, a ognuno con un effetto diverso. Io dopo aver assaggiato questo mondo tante di quelle volte da averne perso il conto e il senso sono il più sobrio e questo mondo mi va veramente stretto. Ecco anche nel protagonista il mondo che si trova davanti va semplicemente stretto, soprattutto dopo aver vissuto l’esperienza di un diversivo di cui solo i moscoviti conoscono gli effetti. Quello che i russi chiamano il punto di smaltimento della sbornia, il vutrevitzel, ovvero una bella doccia a temperatura glaciale che si fa per far passare lo stato di ebbrezza e che nei mesi rigidi degli inverni moscoviti può provocare un arresto cardiaco. Questo sembra aver dato una folgorante lucidità, un impulso straordinario che diventa una sindrome bellissima.
Alberto Deambrogio
Il link all’intervista su Lavoro e Salute: https://bit.ly/3GSk3en