La guglia d’oro
Se sperate di leggere un libro sul paradiso sovietico, lasciate perdere, non proseguite. Se cercate le riflessioni di un’intellettuale disincantata sui tradimenti dell’URSS, anche. Non parlerò né di economia, né di progressi sociali, ma nemmeno di gulag e di ospedali psichiatrici. Di questo si fanno carico ogni giorno i giornali occidentali.
Un giorno, agli inizi del 1985, mi chiamò lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. Si congedava dopo una lunga permanenza in Catalogna. Tornava a casa: nel suo paese oramai c’era la democrazia. Un poco di democrazia. Ma abbastanza per uno scrittore nostalgico. Gli spiegai che stavo finendo questo libro che ora avete tra le mani e che temevo dispiacesse ai cosiddetti prosovietici, nonché a quelli che si dichiaravano antisovietici. E allora, Galeano mi ricordò quello che aveva scritto nel suo diario Simón Bolívar. Erano gli ultimi anni della sua vita, perseguitato e disprezzato da molti, ma gli restava ancora un amico: un cappellano francese che a Parigi scriveva articoli di elogio su di lui. Articoli dove tutto era esageratamente bianco, positivo, ma che non aiutavano la causa bolivariana, anzi, la ridicolizzavano. Allora Simón Bolívar scrisse nel suo diario: “Il buon abate sa elogiarmi, ma non sa difendermi”. Galeano calmò i miei timori e confermò le mie passioni. Perché, in realtà, questo libro è la storia di una passione. Nel 1980 mi sono innamorata della città di Leningrado. Se qualcuno di voi condividerà con me un poco di questa passione, mi considererò soddisfatta.