La grammatica di Febrés
Cagliari, febbraio 1790
Una fitta allo stomaco che accese un braciere. Un rigurgito infuocato arrivò alla bocca e poi alle narici lasciando un retrogusto acido e una nausea urticante. “Debbo farmi un decotto con l’alloro”, disse l’uomo tra sé e sé. Si avvicinò a un fornello, con un ventaglio ravvivò dei carboni quasi spenti, vi poggiò una pentola in cotto per far bollire un po’ d’acqua. “Deve essere stato quel fritto di verdure e pesci”, pensò. Ne era ghiotto, ma sapeva che non doveva abusarne. E poi, quei ghiozzi e sardine, non gli erano sembrati neanche così tanto buoni, forse il pesce non era fresco, oppure quell’olio troppo rancido. Si sedette su una sedia sgangherata, da un vaso di vetro trasse tre foglie di alloro. Tre e non più di tre prevedeva la ricetta secolare. Tre come la Santissima Trinità. Tre come le virtù teologali. Tre come il triangolo della vita e della morte. Tre sopra tre come lo Scudo di Davide. Tre, numero perfetto.
Bonifacio d’Olmi volse lo sguardo al povero alloggio in cui era costretto. Una piccola cucina con dei fornelli, una nicchia nel muro per le brocche dell’acqua, poche stoviglie di terra, miseri piatti in cotto, un mobile per le magre provviste. Il locale, che prendeva luce da un cavedio, anche nei giorni infuocati di luglio era scuro. Una cella, ecco che cos’era. Il resto della casa consisteva in una camera con un letto sfatto, un tavolo traboccante di carte e strumenti di scrittura. Una cassapanca per gli indumenti e le coperte, uno scaffale con pochi libri e tre sedie, anche loro ingombre di carte, un cavalletto con un lavabo e un bacile per l’acqua. Da quella stanza una scala portava al piano terra dell’abitazione. Un ingresso spoglio e, in un angolo, un buco per i bisogni che regolarmente doveva pulire con un secchio. D’Olmi però non si lamentava, questo era quanto potesse permettersi; aveva trascorso tutta la vita in austerità e non si era mai sentito povero, perché la povertà, a suo dire, era ben altro. Povertà è la fame che diventa cattiva consigliera, che ti costringe a svenderti, a cercare una schiavitù per sopravvivere. Lui no, anche nei momenti più insicuri della sua esistenza un piatto di minestra l’aveva trovato; si era sempre sentito abbastanza forte per rifiutare le blandizie di chi voleva far tacere la sua voce o intorpidire la mano con cui vergava i suoi scritti polemici.
Dal mobile di cucina trasse una tazza di porcellana cinese, l’unico suo bene, prezioso regalo di sir Reginald Williams capitano della marina di sua maestà britannica che, tempo prima, gli aveva fatto visita; la osservò attentamente: la sua sottigliezza lo sorprendeva tutte le volte, la finezza dei decori blu e rosa, la trasparenza opalina dei piccoli occhi disseminati sulla superficie concava che ricordavano dei chicchi di riso. Ogni volta si chiedeva quale fosse il misterioso pro- cesso con cui in quel paese così lontano, il Catai di Marco Polo, abili artigiani riuscissero a creare oggetti così sottili, dall’aspetto fragile e nello stesso tempo così resistenti. Nessuno nella cristianità era mai riuscito a imitarli. A dire il vero in Sassonia, a Meissen, un alchimista ci era andato vicino, però il risultato non era paragonabile all’originale che veniva dall’Oriente.
Il dolore allo stomaco non passava e le fiamme invadevano la carotide. D’Olmi si alzò, mise le foglie nella tazza e vi versò l’acqua bollente. In quel tugurio si sprigionò il profumo tannico dell’alloro che coprì il tanfo di chiuso e di sudicio che lo impregnava da secoli. Dopo aver atteso che l’acqua assumesse il colore verde, l’uomo prese la tazza tra le mani, soffiò sul contenuto per raffreddarlo, si riaccomodò e iniziò a sorbire il liquido stando attento a non scottarsi. La tisana sembrò calmare quello stomaco in subbuglio. Decise allora di raggiungere lo scrittorio, fece pochi passi e si sedette di nuovo. Un dolore fortissimo partì dal centro della cervice e presto divenne insopportabile. Tentò ancora di alzarsi per raggiungere il letto, ma con una piroetta cadde e si trovò sdraiato sul pavimento. Poi più niente, solo la fitta nebbia di un’incoscienza oscura. Quanto tempo era trascorso? Di nuovo presente a se stesso, aprì gli occhi e non vide nulla se non un velo rosso che gli offuscava la vista. Provò a rimettersi in piedi ma, per quanti sforzi facesse, il corpo non rispondeva ai suoi comandi. Fu a quel punto che la paura lo assalì: “Ho bisogno di un medico che mi pratichi un salasso”, riuscì a pensare prima che l’oscurità lo avvolgesse di nuovo. Da quel buio uscirono figure spaventose, scheletri danzanti, maschere nere con disegnati teschi bianchi, voci cavernose che lo chiamavano in greco, latino, sardo e spagnolo. Al centro di questa folla di fantasmi comparve un essere mezzo donna e mezzo uccello con piume sgargianti che gli intimò di pregare in una lingua che lui capiva ma non riusciva a definire. Provò a recitare dentro di sé qualche orazione, ma gli unici versi che uscivano dai recessi della sua mente furono: «Dies irae dies illa, solvet saeculum in favilla.»
Bonifacio cercò di ricacciarli con una preghiera di speranza, ma il canto si faceva sempre più invadente: «Tuba mirum spargens sonum. Per sepulchra regionum. Coget omnes ante tronum.»
Quella giornata sarà irosa, ridurrà il mondo in brace incenerita. Una tromba spargerà un suono grande per i sepolcri ovunque siano. Spingerà tutti davanti al trono.
La paura di Olmi si trasformò in terrore assoluto: “No!”, urlò dentro di sé: «Vade retro!»
Quel canto lo avvolgeva mentre le figure cercavano di trascinarlo nell’oscurità.
«Rex tremende maiestatis qui salvandos salva gratis, salva me, fons pietatis.»
O tu che regni con maestà terrifica, che salvi chi salvi per pura gratuità, salvami fonte di pietà.
«Salva me, fons pietatis!»
Lo urlò e lo ripeté infinite volte: «Salva me, fons pietatis!»
Ma le sue orecchie non sentirono parola se non un flebile lamento. L’essere mezzo donna e mezzo uccello si rivolse a lui con una espressione indifferente: «Adesso dormi», gli intimò. Sulle guance di Bonifacio comparvero delle lacrime che lui non sentì. Cadde in un sonno pesante.
Il silenzio della casa venne interrotto da un aprirsi brusco della porta d’ingresso e da passi frettolosi che facevano cigolare la scala di legno che portava al piano superiore. Una donna di circa una trentina d’anni si accompagnava a un uomo molto più maturo di lei.
Tecla, che praticamente ogni giorno si recava in quel tugurio per pulirlo, per preparare i pasti a Bonifacio e, secondo alcune malelingue, anche per intrattenerlo in modi discutibili, diede una voce per accertarsi che il padrone di casa fosse di sopra.
Tecla Masainas, settima figlia di una famiglia di pescatori, fin da piccolissima era andata a servizio. Non bella ma prosperosa, era stata corteggiata da diversi uomini, ma lei aveva sempre scansato le profferte di matrimonio. Le solite malelingue riferivano che a lei gli uomini non interessassero. In realtà nessuno aveva mai compreso il reale motivo della sua ritrosia. Tecla si guadagnava il pane quotidiano come domestica in quelle dimore che non potevano certo permettersene una fissa. Bonifacio era uno dei suoi clienti messi peggio in arnese. Dopotutto da lui non era che ci fosse granché da fare, ma anche quel poco, per Bonifacio, a volte era un ostacolo insormontabile.
L’uomo che l’accompagnava aveva un aspetto distinto: vestito come un borghese, indossava una giacca lunga di velluto bordò, calzoni al ginocchio, calze scure che terminavano in scarpini con la fibbia e di ottima fattura. Sulla parrucca non calzava il solito tricorno, ma lo sciambergo, un cappello fiammingo a larghe falde, un copricapo introdotto dalla moda spagnola nel secolo precedente, ma ancora in uso tra chi non voleva mostrare troppo il volto per strada. Un viso tondeggiante, quello del borghese, su cui per contrasto sorgeva un naso imperioso. Una pancia pronunciata, che poggiava su gambe smilze, denunciava la propensione del suo proprietario per la buona cucina e testimoniava di una certa agiatezza.
«Quand’è che l’avete trovato così?», chiese il distinto signore a Tecla.
«Monsù, come vi dicevo, questa mattina dopo le lodi.»
«Come avete fatto ad aprire la porta? Avete le chiavi?»
«Certo. Vengo tutti i giorni per dare una mano: preparo i pasti, pulisco… cose così! Ieri gli ho preparato il pranzo. Ma da quel momento non ci siamo più visti, poveretto.»
«Quindi si è sentito male dopo che ve ne siete andata», fece l’uomo. Si curvò su quel povero corpo abbandonato sull’impiantito di legno della stanza, gli sollevò le palpebre e guardò gli occhi arrossati, sbottonò il colletto della camicia e, facendosi largo nella barba, poggiò due dita sulla vena del collo.
«È ancora vivo», soggiunse. «Il cuore batte… lentamente, ma batte.» Non c’era nessuna soddisfazione nella constatazione, anzi pareva improntata al disappunto per quella vita che lottava fino all’ultimo.
«Cosa devo fare?», chiese Tecla contorcendosi le mani. L’altro non rispose immediatamente. Allora la donna, quasi in tono supplice, continuò: «Monsù, se mi date una mano lo mettiamo sul letto.»
L’uomo non voleva rispondere, poi all’improvviso disse: «Quando avrò finito vi dirò cosa fare… lasciamolo sul pavimento, così come l’abbiamo trovato.»
Tecla si meravigliò per quella proposta. “Sul pavimento freddo? Perché mai?”, si domandò. Ma non osò contestare il parere dell’altro. Anzi, ci tenne a rassicurarlo: «Ho eseguito i vostri ordini, eh. Ho fatto quel che mi avete detto, ho avvertito solo voi.»
«E avete fatto bene», rispose senza sollevare gli occhi da Bonifacio. Rimase in quella posizione, curvo sul vecchio, per un tempo che a Tecla parve lunghissimo. Alla fine, quasi si ridestasse, si sollevò di scatto, batté le mani sulle ginocchia, come a togliersi della polvere, e annunciò: «Ora mettiamolo sul letto.»
Gli tirarono una coperta sbrindellata fino al mento e, mentre Tecla sembrava non sapere che altro fare, il borghese si guardò attorno. C’erano diverse cose, in quella sorta di casa, che richiamavano la sua attenzione. In una cassa di legno, per esempio, giacevano alcuni caratteri per la stampa. Prese dei pezzi a caso e li osservò con attenzione, poi li ripose. Quindi, come trasportato da pensieri insondabili e sotto gli occhi della domestica, si avvicinò al tavolo da lavoro e sbirciò nelle carte. Prima una sorta di sguardo distratto, poi un esame più attento. Dopo un po’ venne attirato da un faldone all’interno del quale erano stipati dei fogli. Sciolse il legaccio e cominciò a scorrere quella scrittura minuta. In testa al primo foglio c’era una sorta di titolo. Capì si dovesse trattare di una bozza di qualche libro, forse pronto per la stampa. Sempre più incuriosito gli spuntò un leggero sorriso. Tecla lo vide anche annuire, forse contento per quanto appena trovato. Di lì a breve si volse verso la donna e, con voce imperiosa, disse: «Chiamate i suoi confratelli, presto, e poi correte dall’avvocato Cherchi, che venga anche lui qui.»
«Cosa avete detto monsù?», domandò Tecla che si era messa accanto al povero Bonifacio.
L’altro, infastidito, ripeté il suo ordine, scandendo perfettamente le parole: «Ho detto di correre al collegio e avvertire i confratelli, poi andate dall’avvocato Diego Cherchi, che venga qui e subito.»
Tecla scese di corsa le scale mentre l’uomo si sedette in un angolo, attendendo l’arrivo degli aiuti.