“La figlia di Shakespeare” su Left
Peccato di superbia in nome del Bardo
Paola Musa, che è anche poetessa, sceneggiatrice e collabora come paroliere con vari musicisti, continua il suo personale ciclo romanzesco sui sette peccati capitali. La figlia di Shakespeare (Arkadia) è dedicato alla superbia, ben diversa, come leggiamo nel risvolto, dalla grandezza. Alfredo Destrè, ex attore fascinoso e ora direttore del prestigioso teatro Global, ha il compito di riavvicinare il pubblico al suo teatro. Lo fa rivisitando i classici in chiave moderna, e in particolare con nuove, azzardate versioni dell’opera shakespeariana, contaminandola a volte goffamente con richiami all’attualità: Re Lear dirigente di una multinazionale, Amleto con una dizione piagnucolosa e movenze gay, Romeo e Giulietta, lui figlio di un comunista lei figlia di un capomafia. Il tutto contaminato con atmosfere rock-punk. Restituisce così popolarità al suo teatro e ritrova un pubblico giovanile. Un giorno però rispunta dal suo passato il vecchio attore Enrico Parodi, fallito, ridotto alla povertà, proprio per la sua integrità morale, e ora suo principale accusatore (quasi fool shakespeariano). Già, perché l’ambiazioso Destrè a un certo punto si è venduto l’anima al diavolo e la sua vita si tascina – in mezzo a ossessioni erotiche – nella corruzione e nell’impostura. La figlia avrà un ruolo decisivo nel suo smascheramento, ma non possiamo rivelare di più. Romanzo dalla prosa lineare e dalla ispirazione dostoevskijana: torbido e cruento, tra delitti e castighi, rovine e possibili redenzioni, tutto giocato sulla meravigliosa “ambiguità” connaturata al teatro stesso (che è spazio della finzione, della recita dell’esistenza, al fine di afferrarne meglio la verità nascosta). Paola Musa nei confronti del suo protagonista, un personaggio intrattabile, un leader egotista, si mostra più intransigente di un padre della Chiesa, più severa e “vendicativa” del pèur iracondo Dante: la stessa fine di Destrè (di cui non diciamo) è quasi la metafora di una intera esistenza condannata fin dall’inizio ad una raggelata solitudine.
Filippo La Porta